La ferita reale o simbolica come atto di resistenza e promessa di rinascita nell’arte contemporanea

Autori

  • Cristina Baldacci

Abstract

Ferite e lacerazioni del corpo, ma anche fenditure e crepe nell’architettura: l’artista contemporaneo traumatizza a volte la carne, alle altre la pietra come atto di resistenza esistenziale, artistica e socio-politica. Dalla Body Art alle esperienze Post Human, infliggersi o provocare lesioni corporee è una dichiarazione di forza e di vita, ancor più che un’ammissione di vulnerabilità e una pulsione di morte. Nei morsi (Trademarks, 1970) che Vito Acconci si timbra sul corpo c’è narcisismo e istinto vitalistico; il colpo di fucile (Shoot, 1971) che ferisce Chris Burden sul braccio sinistro durante una performance è un mettere alla prova i propri limiti psico-fisici, una sorta di resilienza biologica; le incisioni che Gina Pane si provoca sulle braccia con una lametta (Azione sentimentale, 1973), tingendosi di rosso la pelle e l’abito immacolato che indossa, sono un gesto di affermazione identitaria come donna, dove il sangue è simbolo del mestruo e del parto, quindi di vita più che di morte; il sangue che Regina José Galindo si fa prelevare copiosamente rischiando il collasso e poi vende al pubblico a un prezzo simile a quello a cui si vende sul mercato nero (Crisis/Blood, 2009) è un atto di denuncia verso la violenza subita dalle donne, e non solo, nel suo paese d’origine, il Guatemala. Quando invece del corpo l’artista aggredisce l’architettura, simbolo del corpo istituzionale e sociale, creando veri e propri vulnera, l’azione si carica di una valenza critica e sovvertitrice nei confronti del sistema artistico, in particolare, e politico, più in generale. L’artista mina le basi (reali e metaforiche) e crea una fragilità che è promessa di rinnovamento. Si pensi alla tipica casa unifamiliare del New Jersey tagliata a metà da Gordon Matta Clark (Splitting, 1974); al pavimento del Padiglione tedesco demolito da Hans Haacke durante la 46a Biennale di Venezia (Germania, 1993); all’abisso che Gregor Schneider ha scavato nei sotterranei di Napoli (400 Meter Black Dead End, 2006); alla spaccatura che Doris Salcedo ha creato nel cemento della Turbine Hall della Tate Modern di Londra (Shibboleth, 2007).

Biografia autore

Cristina Baldacci

Storica e critica d’arte contemporanea, è assegnista di ricerca presso l’Università Iuav di Venezia, dove, nel 2011, ha conseguito il Dottorato in Teorie e Storia delle Arti alla Scuola di Studi Avanzati in Venezia (Dottorato interateneo Cà Foscari/Iuav) con una tesi sull’archivio come forma e strategia artistica. Collabora inoltre con le cattedre di Estetica e di Storia dell’Arte Contemporanea dell’Università degli Studi di Milano, dove si è laureata nel 2004 con una tesi sull’Atlas di Gerhard Richter. È stata docente a contratto al Politecnico (2008-11) e all’Università Cattolica (2013) di Milano e Visiting Scholar alla City University of New York (2005-06) e alla Columbia University in the City of New York (2009). Tra le sue pubblicazioni: Quando è scultura (con C. Ricci, et al., 2010); Arte del corpo (con A. Vettese, Giunti, 2012); Sogno di sapere tutto (con M. Gioni, ed. it./ing., La Biennale di Venezia, 2013); la traduzione dal tedesco di H. Belting, Facce. Una storia del volto (con P. Conte, Carocci, 2014); Gerhard Richter. Atlas (Scalpendi, in uscita).

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Pubblicato

31-12-2014

Come citare

Baldacci, C. (2014). La ferita reale o simbolica come atto di resistenza e promessa di rinascita nell’arte contemporanea. Elephant & Castle, (10). Recuperato da https://elephantandcastle.unibg.it/index.php/eac/article/view/145