Le prigioni di Brjusov. Il motivo della tjur’ma nelle raccolte Chefs d’œuvre, Tertia vigilia e Urbi et orbi
Abstract
1. Il tema della prigione nel primo simbolismo russo 1.1. La prigione secondo i “vecchi simbolisti”La prigione, intesa come simbolo del mondo illusorio e irreale (mir-tjur’ma, “mondo- prigione”), contrapposto all’interiorità dell’anima, è un tema ricorrente nei versi dei simbolisti russi, che risentono profondamente dell’influenza della filosofia di Schopenhauer, introdotta nella poesia modernista da Tjutčev e Fet.
L’idea della prigione si collega, da un lato, al mito platonico della caverna e alla concezione dell’anima quale scintilla divina rinchiusa nel carcere del corpo (Soškin 2005). Dall’altro, essa è strettamente congiunta alla gnoseologia kantiana, e, in particolare, alla distinzione fra realtà fenomenica e “cosa in sé”. La generazione dei primi simbolisti russi, i cosiddetti staršie simvolisty (“vecchi simbolisti”), operanti a partire dagli anni Novanta dell’Ottocento, interpretano infatti il Leitmotiv del carcere secondo la dottrina kantiana dell’inconoscibilità del mondo. Kant aveva dimostrato che la conoscenza che l’uomo ha della realtà è inibita dall’esperienza sensibile di ciò che vediamo e tocchiamo (il fenomeno), e che non può varcare i limiti del fenomenico e cogliere l’“essenza” delle cose in sich, nel loro vero aspetto (il noumeno). Il fenomenalismo kantiano, come ricorda Iosif Mašbic-Verov (Mašbic-Verov 1969:28-31), viene espresso nella lirica dei vecchi simbolisti da immagini che rimandano alla reclusione e alla cattività dell’uomo.
Nikolaj Minskij (pseud. di N. Vilenkin; 1855-1937) scrive una serie intera di poesie intitolate V odinočnom zaključenii [In isolamento; 1905], in cui l’uomo è “una bestia che si dibatte in una cella stretta” (v tesnoj kletke mečuščijsja zver’) (Ivi:28).[1] Analogamente, in Krik [Grido; 1896] di Zinaida Gippius (1869-1945), di fronte alle “porte chiuse a chiave” (zapertye dveri) della conoscenza si consuma la vita dell’uomo-prigioniero, immerso nella cecità e nelle tenebre dell’ignoranza:
Ad una volontà severa noi adempiamo,
come ombre, in silenzio, senza traccia,
una via inesorabile
percorriamo – diretti chissà dove.
E il peso della vita, il peso della croce,
più avanziamo, più è greve...
E ci aspetta una fine
alle porte chiuse a chiave, eternamente.(Gippius 2001:461 *1[2])
Nella celeberrima poesia di Fëdor Sologub (pseud. di F. Teternikov; 1863-1927), Plenënnye zveri [Bestie catturate; 1906], la fenomenologia del sapere kantiana si traduce nella metafora della prigione in cui langue la bestia per eccellenza: l’uomo.
Noi siam bestie catturate,
ci lamentiamo come sappiamo.
Chiuse a chiave son le porte, ermeticamente,
noi aprirle non osiamo. (Sologub 2003:132 *2)
“Cenere”, “menzogna”, “prigione”: ecco le tre voci che compendiano la rappresentazione del mondo propria dei vecchi simbolisti. A riprova di ciò, non possiamo non citare gli eloquenti versi del già menzionato Minskij:
Tutto il mondo è un’unica prigione
dove, in cella d’isolamento,
è l’anima rinchiusa. (Mašbic-Verov 1969:31 *3)
E, infine, Dmitrij Merežkovskij (1866-1941) condensa l’estetica del “mondo-prigione” nei versi di Odinočestvo [Solitudine; 1890].
Nella tua prigione – in te stesso –
tu, misero uomo,
nell’amore, nell’amicizia, in ogni cosa
sei solo, solo per l’eternità!.. (Merežkovskij 2000:334 *4)
Valerij Brjusov (1873-1924), fra i principali teorici e fondatori del simbolismo russo e oggetto di questo articolo, recepisce dalla sensibilità dell’epoca la suggestione neokantiana e neoplatonica del “mondo-prigione”, ma la arricchisce di nuove cadenze. All’università di Mosca, dove, dal 1893 al 1899, aveva frequentato la facoltà storico-filologica, Brjusov aveva studiato, accanto alla filologia classica e ai prediletti Leibniz e Spinoza, la filosofia di Kant (Močul’skij 1962:57). A colpire il poeta e a influenzarne la visione estetica era stata specialmente, come per gli altri simbolisti della prima generazione, la teoria dell’impenetrabilità della “cosa in sé”. Ma sfogliamo a questo punto l’articolo-manifesto brjusoviano “Ključi tajn” [“Le chiavi dei misteri”], che inaugura, nel 1904, il primo numero della rivista letteraria modernista Vesy [La Bilancia], pubblicata a Mosca fino al 1909 sotto la direzione del mecenate Sergej Poljakov (1874-1943). Nel suo scritto Brjusov recupera e interiorizza la gnoseologia kantiana come strumento interpretativo privilegiato della realtà, quando osserva:
I fenomeni del mondo, come ci si svelano nell’universo [...] possono essere studiati mediante la scienza, mediante la ragione. Ma questo studio, fondato sui dati dei nostri sensi, ci offre soltanto una conoscenza approssimativa. L’occhio ci inganna, attribuendo le proprietà di un raggio di sole al fiore da noi contemplato. L’orecchio ci inganna, attribuendo le vibrazioni dell’aria a una qualità del campanello che suona. Tutto il nostro essere ci inganna, trasferendo negli oggetti esterni le sue proprietà, le condizioni della sua attività. Noi viviamo in mezzo a un’eterna menzogna (Brjusov 1968:9-10).
Il mondo appare a Brjusov come una “prigione azzurra” (golubaja tjur’ma), espressione presa a prestito da Fet e metonimia della materia-“tomba” (mogila) (Soškin 2005). Qui il riferimento è, ovviamente, oltre che a Kant, al pensiero di Schopenhauer, molto ammirato da Fet nonché dallo stesso Brjusov (E.llis 1910:127). Anzi, Brjusov non si accontenta più dell’agnosticismo kantiano e individua proprio in Schopenhauer e nella sua concezione dell’arte come conoscenza intuitiva della volontà l’unica possibile via d’uscita dal carcere terreno (Ivi:158). Nella riflessione di Schopenhauer Brjusov trova il materiale più confacente al suo disegno estetico in fieri. Ammettiamo pure che alla scienza sia preclusa l’“essenza” del mondo, come pretende Kant; ebbene, malgrado ciò, il filosofo di Danzica ci mostra un altro mezzo che conduce alla “cosa in sé”: l’arte-rivelazione. Ricorrendo alla lettura schopenhaueriana dei fenomeni estetici, in “Ključi tajn” Brjusov propugna l’idea di una nuova arte che si liberi dalle pastoie della ragione e del razionalismo, in quanto “l’arte è un modo di comprendere il mondo per vie che non sono quelle della ragione. L’arte è quel che in altri campi si chiama rivelazione. Le opere d’arte sono come porte socchiuse sull’Eterno” (Brjusov 1968:9). In effetti, il potenziale intuitivo dell’arte – schopenhaueriamente inteso – secondo Brjusov permette all’individuo di sperimentare “momenti di estasi, di intuizione soprasensibile che consentono di comprendere determinati aspetti dei fenomeni universali, penetrando oltre la loro corteccia esterna” (Ivi:10). Le “chiavi dei misteri” che danno il titolo all’articolo altro non sono, dunque, che i prodotti della nuova arte (naturalmente Brjusov allude all’arte simbolista), “capaci di dischiudere all’umanità le porte che le consentiranno di uscire dalla sua ‘prigione azzurra’, verso un’eterna libertà” (Ivi:11).
In questo articolo teorico, di qualche anno posteriore rispetto alle raccolte liriche che esamineremo, e logica evoluzione di “O iskusstve” [“Dell’arte”] – articolo programmatico pubblicato nell’autunno 1898 ma datato 1899, in cui il poeta si esprimeva per la piena libertà dell’arte da ogni condizionamento esterno –, Brjusov fa della poesia (e della metapoesia). Di fatto, se l’arte salva l’uomo dal “mondo-prigione”, dalla golubaja tjur’ma del fenomenico e delle apparenze, lo salva solo “attraverso di sé” e attraverso la parola artistica, solo parlando della “prigione” ed esorcizzandola con la forza del verbo letterario.
2 Valerij Brjusov e la tjur’ma 2.1 Fra realtà e metafore di prigioniaLa “prigione” è un tema ampiamente presente sia nella prosa che nella poesia brjusoviane. Qui mi limiterò ad analizzare la produzione in versi di Brjusov, lasciando da parte la prosa, pure significativa ma necessitante di un’indagine apposita. Nello specifico, ci occuperemo delle raccolte poetiche Chefs d’œuvre, Tertia vigilia e Urbi et orbi, dove il Leitmotiv della prigione riveste una particolare centralità.
In queste tre raccolte la trattazione dell’immagine tjur’ma si svolge su un duplice piano. Il primo livello è quello della “realtà”. Com’è ovvio, il termine “prigione” rimanda inevitabilmente alla prigione reale, alle celle buie e strette in cui l’uomo incarcerato rinuncia quotidianamente alla propria libertà e alla propria umanità [Fig. 1 e Fig. 2]. Questa dimensione “realistica” della prigione esercita nei versi di Brjusov una funzione che potremmo definire “poietica”: nella sua accezione “reale”, infatti, la prigione è per Brjusov un elemento indispensabile alla “creazione” di un’ambientazione decadente, qual è lo scenario d’ispirazione del poeta ai suoi esordi.
Tuttavia la prigione di Brjusov è anche e soprattutto un simbolo e, in quanto tale, è immagine infinitamente plurireferenziale e infinitamente interpretabile. Nel suo perenne rinviare ad “altro”, il simbolo è metaforico per eccellenza. Ecco quindi che, dietro la parola “prigione”, si cela tutta una serie di significati traslati, complementari e ugualmente giustificati. In particolare, la prigione, nell’accezione kantiana del “mondo-prigione”, è nella poesia brjusoviana – come nei versi dei vecchi simbolisti – l’incarnazione dello stato di cattività proprio dell’umanità intera. Così percepita, essa addita dunque una “verità universale”: la miseria della condizione umana.
Nei capitoli successivi proveremo a scandagliare questo “doppio volto” della tjur’ma di Brjusov attraverso l’esame delle raccolte Chefs d’œuvre, Tertia vigilia e Urbi et orbi.
2.2 La prigione in Chefs d’œuvreLa prigione proposta nella sua veste “realistica”, come luogo concreto ed elemento funzionale alla delineazione di un’ambientazione decadente, si può ritrovare nella prima raccolta di Brjusov, Chefs d’œuvre (1895). Questo libretto di appena 62 pagine rappresenta per Brjusov un’autentica iniziazione poetica (è, a detta di lui stesso, “l’ultimo libro della sua giovinezza”), ma è anche, come lo chiama Ellis, il “primo libro della giovinezza del simbolismo russo” (Ellis 1910:139). Per la varietà formale, la chiarezza del linguaggio e la novità contenutistica, la raccolta mostra il grande debito del Brjusov debuttante nei confronti di Verlaine (Grossman 1985:48-55) e, più in generale, se guardiamo allo sviluppo dei suoi tre principali nuclei tematici (l’eros, l’esotismo, la città), anche nei confronti dell’intero decadentismo francese (Močul’skij 1962:37-40).
La tjur’ma risulta parte integrante di questo quadro di décadence. In Chefs d’œuvre la prigione è un’immagine che ricorre, esplicitamente o implicitamente, almeno tre volte, due delle quali con valore di spazio reale, laddove nel terzo caso si ha un uso metaforico del termine. Nei primi due casi, dati dalle poesie Beglec [Il fuggiasco; 1894] e V vertepe [Al teatrino di marionette; 1895], il contesto carcerario è dipinto come il regno della morte, del non-essere, dell’oscurità, dell’incubo, secondo cioè le modalità e gli stilemi prediletti dal decadentismo francese ed europeo.
Già il titolo, per non parlare del contenuto di Beglec, costituisce un omaggio al tema della tjur’ma e alle atmosfere fin de siècle. L’eroe lirico di Beglec è un prigioniero evaso dal carcere che riconquista la libertà in una notte di luna, ma solo per gettarsi infine, con un coup de théâtre, nel vuoto sottostante. Gli ultimi due versi suggeriscono la connessione – prima romantica, e poi tipica dell’immaginario decadente e simbolista – fra amore e morte, che è uno dei motivi cari alla lirica di Brjusov (Ellis 1910:183).
Aggrappato al cornicione con la mano lacerata,
trepidante, sull’oscura voragine mi ritrovai sospeso.
S’affliggeva in alto la luna indifferente,
gemeva lontano l’onda spensierata,
e con tale mormorio si fondeva, in lontananza,
della dolce chitarra la triste litania.
Mi guardai attorno. La luna alta
nel cielo diafano era pallida e fredda.
La finestra con le sbarre, la finestra della mia prigione.
E là... le pietre e le tenebre mute nell’abissale oscurità!
E ricordai l’amore... la tua mutevolezza...
E mi si staccaron le dita – precipitai nel vuoto! (Brjusov 1973:75-76 *5)
Il tema della prigione ritorna nella poesia V vertepe, dove, senza perdere la sua macabra connotazione tangibile, si intreccia alla dimensione del sogno. Mentre assiste ad uno spettacolo tradizionale di marionette, il vertep, il poeta si lascia vincere dalla stanchezza e si assopisce; è visitato da un incubo: sogna di trovarsi “in una cripta nera” (v čërnom sklepe), ferito e con le catene ai piedi. Abbiamo a che fare, questa volta, non con una presenza effettiva, bensì con una visione – puramente onirica ma non meno angosciante – dell’atmosfera carceraria, della non-vita del detenuto, privato della libertà e segregato fra le mura fredde e cupe di una cella, sottoposto a privazioni e vessazioni di ogni genere, in cattive condizioni fisiche e addirittura ferito (ricordiamoci della “mano lacerata”, izranennaja ruka del prigioniero di Beglec). In altre parole, Brjusov sfrutta in V vertepe la teatralità del tema della tjur’ma per ricreare lo scenario duplicemente decadente e persino orrorifico e claustrofobico della prigionia e dell’incubo.
Ad un teatrino di marionette luccicante e ricercato,
sotto l’incalzare del can-can,
sul divanetto io mi assopii
e mi ritrovai d’un tratto in una cripta nera.
Tutt’attorno aleggiava una nebbia penosa,
soffiava alla finestra il profumo della steppa.
Volevo alzarmi – me l’impedivan le ferite doloranti
e ai piedi tintinnavan le catene. (Ivi:81 *6)
Le tinte oniriche di V vertepe, con l’oscillazione fra la “coscienza dell’orrore infinito della realtà” e “un timido sguardo di speranza verso un altro mondo”, che riecheggia le fluttuazioni della lirica baudelairiana (Ellis 1910:143), ci suggeriscono che forse la prigione per Brjusov non è tanto (o solamente) un luogo reale quanto un luogo metaforico, una condizione interiore, propria dell’uomo in quanto tale. Lo “stato della prigionia” si annuncia, da un lato, in Beglec e V vertepe, come un’esperienza individuale, e lo testimonia la presenza del pronome di prima persona singolare – il segno grafico dell’io lirico, che coincide quasi sempre in Brjusov con il poeta stesso –; dall’altro lato, si tratta però di una condizione universale: quando Brjusov parla di umanità e cattività, dallo ja (“io”) al my (“noi”) il passo è breve.
In “Oblegči nam stradanija, bože!...” [“Mitiga le nostre sofferenze, o Dio!...”; 1894] gli uomini sono paragonati, nella prima quartina, a bestie che barcollano nel buio delle loro caverne di platonica memoria. La prigione viene qui còlta nel suo valore emblematico e interpretata come la tenebra della reclusione “intrinseca” allo status quo umano.
Mitiga le nostre sofferenze, o Dio!
Noi, come bestie,abitiamo le caverne –
duro è il nostro giaciglio di granito,
soffochiamo senza luce e senza fede. (Brjusov 1973:88 *7)
L’allegoria platonica della caverna, ripresa da Brjusov ad indicare la cecità e la regressione dell’umanità, altro non è che uno dei volti che l’immagine della prigione assume nella lirica brjusoviana. In Chefs d’œuvre, come nelle raccolte che vedremo successivamente, l’importanza della tjur’ma intesa in senso metaforico – come “simbolo” – risiede nel suo carattere paradigmatico, di “paradigma” dello stato umano. Agli occhi di Brjusov la prigione non è semplicemente un priëm o un espediente che consente al poeta di riprodurre lo sfondo decadente, ma è anche il mezzo di trasmissione di una saggezza superiore, di un sapere che riguarda tutti gli uomini. Questo sapere nulla ha a che fare con la metafisica o con il misticismo – a cui guardano Belyj, Vjač. Ivanov, Ellis, Blok e Merežkovskij; è un sapere che tocca, invece, per la concretezza dell’estetica brjusoviana, le radici stesse dell’esistenza – individuale e collettiva – e della realtà (Rice 1973:49). Già in “Oblegči nam stradanija, bože!...”, e con più evidenza nella raccolta Tertia vigilia, il topos della prigione si fa segnale di quella che Brjusov riconosce come la “verità” – non trascendentale ma tragicamente terrena – della condizione umana, fatta di disperazione, mancanza di certezze, ignoranza, fragilità, morte.
2.3 La prigione in Tertia vigiliaAnche nella seconda raccolta di Brjusov, Me eum esse (1897), pur in assenza di ricorrenze esplicite del topos della prigione, il mondo appare nuovamente al poeta – ad esempio, in “I noči i dni primel’kalis’...” [“E giorni e notti mi son famigliari...”; 1896] – come ricettacolo di tenebre e miseria, di anti-vita e solitudine, e quindi come “mondo-prigione”.
E giorni e notti mi son famigliari
come le ombre terrene al mago.
In un mondo senza vita io vivo,
vivi son solo i pensieri.
E non c’è nessuno sulla terra
con uno sguardo dolce e dolente
che in queste tenebre penose
peni e patisca qui vicino. (Ivi:121 *8)
Un ricchissimo materiale ai fini del nostro discorso ci offre invece la terza raccolta brjusoviana, Tertia vigilia (1900), che, similmente alla prima, ondeggia fra i due poli della prigionia che abbiamo precedentemente individuato nella lirica di Brjusov – la prigionia come esperienza reale e la prigionia come metafora della condizione umana.
La prigione, intesa come luogo reale, continua a costituire un elemento fondamentale della mitologia decadente di Brjusov. Non a caso, la tjur’ma è lo “sfondo” sul quale si consuma il destino di Maria Stuarda nell’omonima poesia del 1901 (in russo, Marija Stjuart):
Poi, presa dalla rivale superba,
in prigione
trascorresti diciassette anni fieri,
e infine, esausta, ai suoi piedi, docile,
cadesti schiava... E avesti in risposta la morte. (Ivi:159 *9)
Marija Stjuart appartiene alla seconda sezione di Tertia vigilia, significativamente intitolata Ljubimcy vekov [I prediletti del secolo], in cui Brjusov crea il suo proprio “pantheon”, composto dai grandi del passato (Napoleone, Cleopatra, Alessandro, Ramses, Dante e molti altri) che impersonano il suo ideale (Grossman 1985:202-207): quello dell’individualismo fin de siècle, sconfinante nel superomismo. Il quasi-ventennio di prigione e le tribolazioni della regina di Scozia prima della sua esecuzione, voluta dalla cugina Elisabetta I d’Inghilterra nel 1587, vengono dipinti nella poesia “parnassiana” di Brjusov come tappe imprescindibili della vicenda eccezionale di tragedia, passione e martirio dell’eroina. Non dimentichiamo che prigione (reale), morte e unicità sono le tre punte del triangolo decadente nell’ottica lirica brjusoviana.
Eppure, in Tertia vigilia, acquista sempre più terreno – rispetto al carcere raffigurato come ambientazione specifica ed esperienza di vita reale nonché fondamento del mito dell’eroe fin de siècle – l’aura allegorica della prigione, nella quale Brjusov legge il “simbolo” del “mondo-prigione”, del carcere terreno, del penitenziario dell’umanità, come abbiamo detto più volte. Tuttavia l’emblematicità della tjur’ma, su cui ora ci soffermeremo, si diversifica e si fa più complessa. In questa terza raccolta di Brjusov, infatti, le “prigioni” – o i “labirinti” in cui è rinchiuso l’uomo moderno, come li ritrae Ellis (Ellis 1910:164) – sono due: la prigione della “città” e la prigione dell’“anima”.
Cominciamo dall’ultima. Secondo Brjusov, l’uomo è prigioniero della propria “terrestrità”, della propria “umanità”: “Il nostro vestito è il colore della terra” (Odežda naša — cvet zemli) – recita un verso di “My k jarkim kraskam ne privykli...” [“Noi non siamo avvezzi alle tinte sgargianti...”; 1899]. La prima quartina di questa poesia, che si potrebbe benissimo definire una lamentatio de humani genere, rivela tutto il dramma dell’“essere uomo”.
Noi non siamo avvezzi alle tinte sgargianti,
il nostro vestito è il colore della terra;
e con sguardo pavido ci chiniamo,
ci trasciniamo lentamente nella polvere. (Brjusov 1973:174 *10)
“Essere uomo” comporta limiti e umiliazioni, a cui alludono i verbi poniknut’ (“chinarsi”) e vlačit’sja (“trascinarsi”); è sinonimo di inferiorità e debolezza (fisica e spirituale); equivale, in ultima analisi, alla “prigionia” – del proprio corpo, della propria mente, del mondo esterno. La filosofia brjusoviana del disincanto emerge con straordinaria chiarezza in “Oblečënnye v odeždy...” [“Rivestìti di vesti...”; 1900], dove ritroviamo di nuovo il pronome di prima persona plurale, my, segnale dell’universalità della prigionia e della prigione, che viene qui a connotare l’ottusità e l’antiesteticità del genere umano, incapace di contemplare la bellezza, perché calato da sempre “nelle prigioni della grigia tenebra” ( v temnicach seroj t’my).
Rivestìti di vesti
lunghe e grevi, – non noi
apriremo gli occhi alla bellezza,
noi siamo nelle prigioni della grigia tenebra. (Ivi:175 *11)
Potremmo essere portati a provare compassione per l’uomo, come per una povera vittima delle circostanze. Caveat canem! – ci ammonisce Brjusov: più che vittima, l’umanità è la carnefice di se stessa, succube com’è dei propri vizi, delle cattive abitudini, del male. Tale è la morale di “Po cholodnym znakomym stupenjam...” [“Salendo i freddi gradini noti...”; 1900], in cui il poeta-io lirico ritorna nel “palazzo abbandonato” (pozabytyj dvorec) della sua giovinezza – emblema dell’eros fugace e illusorio, che rende schiavi –, ma solo per accorgersi del “tradimento” (izmena) delle sue rêveries amoureuses. Non gli resta, a questo punto, che lasciare ormai definitivamente il palazzo della dissolutezza e della libido, guadagnandosi così la libertà del “fuggiasco” (beglec) evaso dalla prigione.
Salendo i freddi gradini noti
io entrai nel palazzo abbandonato
(dei baci, dei giuramenti, dei canti),
e mi guardai attorno come un povero fuggiasco.
Qui da bambino avevo trascorso gli anni,
mi ero inchinato alla grandezza del palazzo;
mi sembrava che le volte assomigliassero al cielo
e che le gallerie non finissero mai.
Dovevo gioire o piangere per il tradimento?
Come mi era penoso tutto ora
(i baci, i giuramenti, i canti...).
... E aprii la porta segreta. (Ivi:181 *12)
“Po cholodnym znakomym stupenjam...” è un ottimo indicatore dell’evoluzione del simbolo della tjur’ma nella lirica brjusoviana matura. A partire da Tertia vigilia, Brjusov comincia ad esplorare una nuova dimensione della prigionia: la schiavitù interiore dell’uomo. Oltre ad essere il “carcerato della vita”, asservito alla propria stessa condizione umana (ce l’avevano illustrato i versi di Chefs d’œuvre), l’uomo è, prima di tutto, “prigioniero nell’anima” – delle pulsioni, degli istinti, dei pensieri, dei desideri. Ad accentuarne la “prigionia psichica”, interviene perfino il mondo esterno. L’immagine-simbolo della prigione risulta di conseguenza sdoppiata: la prigione è “dentro” l’uomo, ma è anche “fuori” dall’uomo. Questa “prigione esteriore”, riflesso di quella “interiore”, ha un nome ben preciso: “città”.
Una sezione di Tertia vigilia è intitolata V stenach [Fra le mura]. E proprio fra le mura della città si consuma il dramma dell’uomo carceriere di se stesso. Ellis ha opportunamente osservato come il 1900, anno dell’uscita di Tertia vigilia, segni un’ulteriore fase della poesia di Brjusov, caratterizzata dal superamento della “poesia dei cenni” (poe.zija namëkov) e della raffigurazione impressionistica e da un interesse esclusivamente “plastico” verso il simbolo (Ellis 1910:151; 153-154). Nel tema della prigione si riverbera questa maggiore “plasticità” dell’universo poetico di Brjusov, se non altro nel modo in cui il “mondo-prigione”, ancora rarefatto ed evanescente in Chefs d’œuvre, si viene ora a concretizzare nell’area urbana. La tjur’ma possiede appunto nella terza raccolta brjusoviana le forme e i contorni della città.
Sia la prigione che la città sono ugualmente pervase da un’aura lugubre di morte, angoscia, desolazione. In “Slovno nezdešnie teni...” [“Come ombre forestiere...”; 1900] la città viene raccontata come il cimitero della razza umana. Il lessico della poesia, che insiste sull’oscurità del nucleo urbano (“ombre”, teni), sul senso di costrizione dell’individuo (“i muri mi circondano”, Steny menja obstupili; “Terribili le porte chiuse!”, Strašny zakrytye dveri), sull’equazione “città=tomba” (“Nella città io son come nella tomba”, V gorode ja — kak v mogile; “Ogni stanza è una bara!”, Každaja komnata — grob!) e sulla ferinità dei prodotti umani (la metafora degli edifici come “bestie rapaci”, chiščnye zveri ), ci riporta subito alla mente il vocabolario brjusoviano della prigione.
Come ombre forestiere
i muri mi circondano:
pensieri delle generazioni passate!
Nella città io son come nella tomba.
Gli edifici son bestie rapaci
con centinaia di grembi mai sazi!
Terribili le porte chiuse!
Ogni stanza è una bara! (Brjusov 1973:177 *13)
Come la prigione, anche la città è in grado di dirci qualcosa sulla sorte dell’uomo. Alcuni studiosi hanno individuato nella lirica urbana di Brjusov il tema della “limitazione” claustrofobica (Grossman 1985:209-210), segnalando l’atteggiamento ambiguo del poeta nei confronti del “limite”, ora fonte di piacere masochistico, ora causa di inibizione (Masing-Delic 1975), ma sempre e comunque visto come “la condizione esistenziale dell’uomo” (Ivi:393), e quindi anche come il suo destino. Nelle vie, negli edifici, nelle geometrie urbane Brjusov capta – per usare le parole di Ellis – “il mondo del futuro, ignoto, terribile e grande” (Ellis 1910:164). Protagonista di V nekončenom zdanii [In un edificio non finito; 1900] è la Città-prigione, un “edificio non finito” dalle “dimensioni enormi” (razmery gromadnye) per il quale gli uomini si aggirano senza scopo né meta alcuna, “in un’ottusa attesa” (V kakom-to tupom ožidanii) – di che cosa, non si sa. La “prigione ignota che cresce” (Bezvestnaja rastuščaja tjur’ma) in un contesto dall’inquietante ambiguità e nonsense diventa così la personificazione di una profezia terribile, del futuro imminente di prigionia e asservimento dell’umanità intera.
Noi vaghiamo in un edificio non finito
per boschi traballanti, tremanti,
in un’ottusa attesa,
senza fidarci delle ore serali.
[...]
Ci terrorizzano le dimensioni enormi
della prigione ignota che cresce.
Sugli abissi, penosi, avidi,
stiamo, incantati, noi. (Ivi:222 *14)
Questi ultimi due versi mi pare sottolineino incisivamente, ancora una volta, quanto l’individuo, per Brjusov, sia artefice della propria prigionia. L’immagine degli uomini che sbirciano “penosi” (žalkie) e “avidi” (žadnye) nelle voragini del loro carcere terreno, rimanendone “incantati” (začarovany), svela il fascino irresistibile della cattività e l’accettazione della sua logica da parte della collettività umana. Un’amara verità, quella denudata da V nekončenom zdanii, che è sottesa a tutto il ragionamento brjusoviano sul tema della tjur’ma in Tertia vigilia. In particolare, essa affiora nel tratteggio della Città-prigione di Zamknutye [Chiusi], breve poema scritto fra il 1900 e il 1901 e posto in chiusura della raccolta, a suggello della riflessione di Brjusov sui simboli della città e della prigione.
Il sottotitolo annuncia: Poema satirico (Satiričeskaja poe.ma) (Ivi:259). In effetti, Zamknutye si presta ad essere letto come un originale “poema satirico” sull’umanità e sulla sua corsa fatale verso le catene e la rovina. L’ambientazione del poema è una “Città” (Gorod) che presenta nuovamente numerose analogie con la prigione per la sua aura di cupa decadenza e mistero (è “antica”, starinnyj; “severa”, surovyj; “ignota”, bezvestnyj) (Ibidem). Ciò che più la avvicina all’atmosfera carceraria è, però, la sua separazione dal mondo e dalla vita, simboleggiata dalla sua posizione geografica, fra le rocce, il deserto e il mare: “Mi pareva fosse chiusa, senza speranza” ( Kazalos’ mne: on zamknut beznadežno) – commenta la voce narrante (Ibidem). Le affinità fra la Città-prigione e la morte trapelano nella seconda parte di Zamknutye, in cui Brjusov passa in rassegna i tre luoghi di “non-vita” del mondo urbano: le chiese – ricettacoli di superstizione e di vuoti rituali; le sale dei congressi – teatro dei discorsi tendenziosi degli studiosi; i laboratori artistici – asilo dell’arte finta, non ispirata (Ivi:261-262).
La Città di Zamknutye adora l’“idolo” (kumir) della “consueta apparenza” (obyčnaja vnešnost’), dell’“abitudine” ( privyčka) e della “condizione” (uslovie) (Ivi:263) o, in altri termini, del più totale asservimento dell’uomo alla quotidianità più prosaica, dove ogni eccesso è bandito, ma a scapito della libertà (Ivi:263-265). Capiamo finalmente il perché della scelta brjusoviana di ritrarre una “Città” con la lettera maiuscola e il significato che tale scelta comporta per lo sviluppo del motivo della tjur’ma all’interno della raccolta Tertia vigilia. Nella sua ipostasi della Città per antonomasia, alla fin fine il simbolo della prigione assurge a metafora universale dell’immobile e inesorabile fato umano, che ha il sapore acre e sinistro della “schiavitù” (rabstvo) e delle “catene” (okovy).
E un sogno terribile mi tormentava in quei giorni:
e se la mia Città fosse il presagio dei secoli?
E se la Trivialità fosse una forza fatale
e creato fosse l’uomo per la schiavitù e le catene?
[...]
e se il mondo, uggioso e stanco,
stesse, come un viandante tardivo,
vicino alla palude, sul confine fatale? (Ivi:265 *15)
“E se [...] / [...] creato fosse l’uomo per la schiavitù e le catene?”: questa grande ma terribile verità perseguita il poeta, tanto da riaffiorare persino nella sua quarta raccolta, Urbi et orbi (1903). Qui Brjusov sviluppa ulteriormente i due filoni tematici della prigione – reale e simbolica, della “città” e dell’“anima” –, già trattati nelle raccolte precedenti. Tuttavia, se in Chefs d’œuvre la tjur’ma quale ambientazione concreta giocava un ruolo determinante nella costruzione della poetica decadente di Brjusov, Urbi et orbi – come, del resto, anche Tertia vigilia – riservano maggiore rilievo ai risvolti “emblematici” di tale motivo. Ciò è dovuto, indubbiamente, all’abbandono dell’estetica decadente da parte di Brjusov, e va di pari passo con l’elaborazione della sua propria Weltanschauung simbolista.
In questo senso, Urbi et orbi sono, sulla scia di Tertia vigilia, un conturbante affresco della “prigionia dell’anima”. Rab [ Schiavo; 1900] e Rešëtka [Inferriata; 1902] ricordano “Po cholodnym znakomym stupenjam...” per il tema dell’eros come fonte di schiavitù. L’io lirico di Rab, schiavo di una bellissima e altera regina orientale, riceve una singolare punizione per aver “osato” guardare la sovrana negli occhi: “incatenato” (prikovan) alla sua alcova “come un cane” (kak pës), è costretto ad assistere – peraltro, non senza un certo godimento – ad una notte di passione della regina con il suo giovane amante (e tutto questo prima di essere mandato ai lavori forzati in una cava).
Ed era tutto così simile al delirio!
Fui testimone delle magie notturne,
di tutto ciò che il giaciglio copre,
dei loro sussulti, dei gemiti loro.
Al mattino li vidi vicini!
Ancora tremanti fra un sogno e l’altro!
E fino allo spuntar del sole mi dissetai lo sguardo,
incatenato al loro giaciglio come un cane. (Ivi:287 *16)
Mentre lo sfortunato schiavo dell’inavvicinabile regina orientale, in fin dei conti, rimane vittima dei propri impulsi amorosi non corrisposti, Rešëtka è, propriamente, l’“inferriata” che divide fisicamente due innamorati, “seppelliti” (pogrebeny) nel loro amore, trasformatosi per loro in una “prigione-morte” dalle tinte romantico-decadenti per un verso, simboliste per l’altro (il tema dell’“amore-morte” è assai ricorrente nella produzione dei simbolisti russi).
Fra noi v’è una fitta inferriata,
nella prigione in cui siamo seppelliti.
[...]. (Ivi:291 *17)
Nelle strofe di Rab e Rešëtka a stringere le catene attorno ai polsi dell’uomo è la forza impetuosa e travolgente dell’amore e della sessualità, che diviene per l’individuo una forma di prigionia. Eppure questa non è che una delle manifestazioni di una tjur’ma e di uno stato di reclusione ben più ampi. Della schiavitù dell’uomo, intesa come fattore “congenito”, intimamente radicato nella sua anima, Brjusov parla nella celeberrima Odinočestvo [Solitudine; 1903]. Riprendendo la terminologia kantiana dell’inconoscibilità del mondo e i moti pessimistici schopenhaueriani, la poesia tocca in modo specifico il tema della prigionia e dell’isolamento dell’uomo. La tjur’ma si identifica per Brjusov con l’emarginazione solipsistica dell’ego.
Passano i giorni, passano i termini,
invano la libertà bramiamo noi.
Noi siamo spietatamente soli
sul fondo della nostra anima-prigione! (Ivi:318 *18)
Accanto alla metafora tradizionalmente simbolista e, tutto sommato, rarefatta dell’“anima-prigione” (duša-tjur’ma), in Urbi et orbi il valore metaforico della tjur’ma si volge al realismo simbolico, a realibus ad realiora. La prigione che si va costruendo in Kamenščik [Muratore; 1901] unisce la realtà dell’ambientazione carceraria alla sua fictionalità simbolica, quasi a fungere da ponte fra il Brjusov di Chefs d’œuvre e il Brjusov maturo, fra il fascino della decadenza e le lusinghe del simbolismo. La tjur’ma “prende carne”, il simbolo diventa realtà.
– Muratore, muratore col grembiule bianco,
cosa costruisci? per chi?
– Ehi, non disturbarci, siamo impegnati,
costruiamo, costruiamo una prigione. (Ivi:329 *19)
La prigione, la reclusione, la schiavitù non sono microtemi di secondo piano nella Weltanschauung di Brjusov, ma permettono anzi di seguire l’atto della creazione artistica e la concezione estetica del poeta nel suo farsi. Nel caso di Chefs d’œuvre, Tertia vigilia e Urbi et orbi, il motivo della tjur’ma, “sdoppiato” nella “prigione reale” e nella “prigione allegorica” – metafora dei limiti e dell’infelicità umana –, segnala il salto della produzione brjusoviana dalle modulazioni decadenti delle prime opere a sfumature più squisitamente simboliste.
È però anche vero che, in questo suo “sdoppiamento”, l’immagine-simbolo della tjur’ma condensa in sé entrambe le funzioni dell’arte individuate da Vjač. Ivanov, l’”emmorfosi” (funzione denotativa, tipica del realismo) e la “metamorfosi” (funzione trasfigurativa, propria dell’idealismo). Chiamata a descrivere la realtà e a trasformarla al tempo stesso, la prigione si rivela così il riflesso dello stesso cosmo artistico di Brjusov, quasi un dialogo metaletterario della poesia con la vita.
Appendice Poesie citate*1 “My ispolnjaem volju stroguju, / Kak teni, ticho, bez sleda, / Neumolimoju dorogoju / Idëm — nevedomo kuda. // I noša žizni, noša krestnaja, / čem dalee, tem tjaželej... / I ždët končina neizvestnaja / U večno zapertych dverej”.
*2 “My — plenënnye zveri, / Golosim, kak umeem. / Glucho zaperty dveri, / My otkryt’ ich ne smeem”.
*3 “Ves’ mir — tjur’ma odna, / Gde v kel’e odinočnoj / Duša zaključena”.
*4 “V svoej tjur’me, — v sebe samom — / Ty, bednyj čelovek, / V ljubvi, i v družbe, i vo vsëm / Odin, odin navek!..”.
*5 “Izranennoj rukoj schvativšis’ za karniz, / Nad tëmnoj propast’ju ja trepetno povis. // Besstrastno v vyšine pečalilas’ luna, / Stonala vdaleke bespečnaja volna, // I s e.tim ropotom slivalos’, v otdalen’i, / Gitary laskovoj unyloe molen’e. // Ja posmotrel vokrug. Vysokaja luna / V prozračnoj sineve bledna i cholodna. // Okno s rešëtkoju, okno moej tjur’my. / A tam... bezmolvnyj mrak i kamni v bezdne t’my! // I vspomnil ja ljubov’... tvoë nepostojanstvo... / I pal’cy razošlis’, — ja kinulsja v prostranstvo!”.
*6 “V sijajuščem izyskannom vertepe, / Pod muzyku, sulivšuju kankan, / Ja zadremal, poniknuv na divan, / I vdrug sebja uvidel v čërnom sklepe. // Vokrug stojal mučitel’nyj tuman, — / V okno neslos’ blagouchan’e stepi. / Ja vstat’ chotel, — mešala bol’ ot ran, / I na nogach zadrebezžali cepi”.
*7 “Oblegči nam stradanija, bože! / My, kak zveri, vgnezdilis’ v peščery — / Žestko naše granitnoe lože, / Dušno nam bez lučej i bez very”.
*8 “I noči i dni primel’kalis’, / Kak dol’nye teni volchvu. / V bezžiznennom mire živu, / Živymi liš’ dumy ostalis’. // I net nikogo na zemle / S laskajuščim, gorestnym vzgljadom, / Kto b v e.toj tomitel’noj mgle / Tomilsja i mučilsja rjadom”.
*9 “Potom, zachvačena sopernicej nadmennoj, / V tjur’me ty provlekla semnadcat’ gordych let, / I, nakonec, bez sil, k eë nogam, smirenno, / Pripala ty raboj... I smert’ byla otvet”.
*10 “My k jarkim kraskam ne privykli, / Odežda naša — cvet zemli; / I robkim vzorom my ponikli, / Vlačimsja medlenno v pyli”.
*11 “Oblečënnye v odeždy / Dlinno-tjažkie, — ne my / K krasote otkroem veždy, / My — v temnicach seroj t’my”.
*12 “Po cholodnym znakomym stupenjam / Ja vošël v pozabytyj dvorec / (K pocelujam, i kljatvam, i penjam), / Ogljanulsja, kak žalkij beglec. // Zdes’, rebënkom, izvedal ja gody, / Poklonjalsja velič’ju dvorca; / Slovno nebo, kazalis’ mne svody, / Perechody krugom — bez konca. // Likovat’ il’ rydat’ o izmene? / Kak vsë tesno i žalko teper’ / (Pocelui, i kljatvy, i peni...). / ... I otkryl ja zavetnuju dver’”.
*13 “Slovno nezdešnie teni, / Steny menja obstupili: / Dumy bylych pokolenij! / V gorode ja — kak v mogile. // Zdanija — chiščnye zveri / S sotnej nesytych utrob! / Strašny zakrytye dveri: / Každaja komnata — grob!”.
*14 “My brodim v nekončenom zdanii / Po šatkim, drožaščim lesam, / V kakom-to tupom ožidanii, / Ne verja večernim časam. // [...]. // Nam strašny razmery gromadnye / Bezvestnoj rastuščej tjur’my. / Nad bezdnami, žalkie, žadnye, / Stoim, začarovany, my”.
*15 “I strašnaja mečta menja v te dni tomila: / čto, esli Gorod moj — predvestie vekov? / čto, esli Pošlost’ — rokovaja sila, / I sozdan čelovek dlja rabstva i okov? / [...] / čto, esli mir, unylyj i ustalyj, / Stoit, kak strannik zapozdalyj, / K trjasine podojdja, na rokovoj čerte?”.
*16 “I bylo vsë na bred pochože! / Ja byl svidetel’ čar nočnych, / Vsego, čto tajno kroet lože, / Ich sodroganij, stonov ich. // Ja utrom uvidal ich — rjadom! / Eščë drožaščich v smene grëz! / I vplot’ do dnja vpivalsja vzgljadom, — / Prikovan k ložu ich, kak pës”.
*17 “Meždu nami častaja rešëtka, / V toj tjur’me, gde my pogrebeny. / [...]”.
*18 “Prochodjat dni, prochodjat sroki, / Svobody tščetno žaždem my. / My bespoščadno odinoki / Na dne svoej duši-tjur’my!”.
*19 “— Kamenščik, kamenščik v fartuke belom, / čto ty tam stroiš’? komu? / — E.j, ne mešaj nam, my zanjaty delom, / Stroim my, stroim tjur’mu”.
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[1] Qui e avanti, ove non diversamente indicato, le traduzioni sono mie. Il grassetto nelle citazioni, così come nel corpo del testo, è sempre di chi scrive.
[2] Il numero preceduto dall’asterisco rimanda al testo russo originale della poesia citata, riprodotto in base all’edizione di riferimento indicata accanto alla mia traduzione italiana e riportato nell’Appendice finale, nella versione traslitterata.
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