Il reticolo e la stella - note sull'immaginario carcerario nella prosa di W. G. Sebald

Autori

  • Nicola Ribatti Università degli Studi di Siena

Abstract

1. W. G. Sebald: per una critica della razionalità cartesiana.

L'opera dello scrittore tedesco W. G. Sebald è stata oggetto di attenzione crescente da parte della critica letteraria in questi ultimi anni. Molti studiosi vi hanno visto anzitutto uno scrittore della Shoah; altri hanno analizzato il tema della memoria, altri ancora hanno preso in considerazione il rapporto tra testo e immagine, divenuto ormai la cifra stilistica della sua produzione. A ben vedere, questi temi [1], ciascuno dei quali occupa innegabilmente un posto di rilievo nella sua prosa, si possono collocare nell’ambito di una più ampia riflessione tesa ad analizzare le caratteristiche della modernità e del modello di razionalità a essa sottesa. Si tratta di una serrata analisi che l’autore conduce sulla scorta della lezione della Dialettica dell’Illuminismo di Horkheimer e Adorno [2], del pensiero di Walter Benjamin[3] e dell'opera di Foucault[4]. Con il termine 'modernità' si fa riferimento a quei radicali mutamenti economici, sociali, politici e culturali che, a partire dalla fine del XVII secolo, sono stati prodotti dall'avvento della cosiddetta 'razionalità cartesiana'. Questa forma di pensiero, basata sulla “crudele ragione delle identità e delle differenze” (Foucault 1988: 65), da un lato ha favorito meccanismi di controllo e regolazione, dall’altro ha portato allo sopraffazione e alla distruzione dell’Altro’, come testimoniato dalla Shoah. E' questo l'assunto teorico sotteso a tutto l’opus sebaldiano. All'analisi della modernità vanno dunque ricondotti i temi precedentemente citati così come i riferimenti all'immaginario carcerario rintracciabili nelle opere di Sebald: la prigione, nelle sue varie declinazioni che vanno dalle tecnologie disciplinari ai meccanismi di regolazione biopolitica, è vista come essenza stessa della moderna razionalità cartesiana nella misura in cui essa controlla, disciplina e annienta quanto è sottoposto al suo controllo. Le riflessioni che seguono proveranno a individuare la presenza dell’immaginario carcerario nella seconda e nella terza prosa di Sebald: si tratta rispettivamente de Gli anelli di Saturno e di Austerlitz.

2. Il reticolo: Gli anelli di Saturno

Gli anelli di Saturno descrivono la Wanderung compiuta da un anonimo io narrante nella desolata regione del Suffolk in Inghilterra. La descrizione del paesaggio circostante offre in realtà lo spunto per ricostruire le principali catastrofi storiche che hanno caratterizzato la storia moderna dal XVII secolo fino alla Shoah. Il nesso tra ragione cartesiana e carcere è tematizzato nella lunga ékphrasis dell'opera di Rembrandt La lezione di anatomia del dottor Nicolaes Tulp, presente nel primo capitolo [Figura 1]. L'opera viene commissionata nel 1631 da Nicolaas Tulp, professore di anatomia ad Amsterdam e membro della gilda dei medici. Nel dipinto di Rembrandt il dottor Tulp è ritratto nel momento in cui disseziona il cadavere di un criminale dell’epoca, tale Aris Kindt, ed espone agli astanti il funzionamento dei tendini del braccio sinistro: per maggiore comprensione, li afferra con delle grosse pinze e a sua volta, con la mano sinistra, mima il movimento delle dita reso possibile dai tendini stessi. Nelle intenzioni dei committenti, l'opera doveva da un lato mettere in rilievo il prestigio sociale dei membri della gilda, dall’altro, attraverso il vivido realismo dell’opera, doveva esaltare la nuova visione scientifica del mondo basata sull'osservazione empirica e sulla razionalità cartesiana: l'autopsia immortalata da Rembrandt “voleva essere [..] una dimostrazione dell'impavido impulso alla ricerca della nuova scienza. (AS: 18)". Per Sebald, al contrario, l'opera costituirebbe una critica della moderna razionalità cartesiana. Lo scrittore nota anzitutto come l'attenzione dell'osservatore sia colpita dalla figura del cadavere, che richiama l'iconografia della Passio Christi: si pensi al Compianto sul Cristo morto del Mantegna o al Cristo morto di Hans Holbein [Figura 2]. In secondo luogo, Sebald nota come nessuno degli astanti osservi il corpo della vittima, ma rivolga il proprio sguardo verso l'atlante di anatomia:

Eppure c'è da chiedersi se davvero qualcuno abbia mai visto quel cadavere, dato che l'allora nascente arte dell'anatomia serviva non da ultimo a sottrarre alla vista un corpo macchiatosi di colpa. E' significativo che gli sguardi dei colleghi del dottor Tulp non siano rivolti al cadavere come tale, ma si spingano oltre, per quanto solo di pochissimo, puntandosi sull'atlante di anatomia aperto, nella quale l'orrenda corporeità è ridotta a un diagramma, allo schema di un essere umano, come se lo figurava un appassionato amatore di anatomia, pure presente, pare, quella mattina di gennaio al Waagebouw: René Descartes. E' noto che Descartes, in uno dei principali capitoli della storia della sottomissione, insegnava che si deve prescindere dalla carne, che è incomprensibile, e invece sfruttare senza posa nel lavoro la macchina già predisposta in noi, ossia ciò che si comprende perfettamente, e che, in caso di sempre possibile malfunzionamento, si può vuoi rimettere in funzione, vuoi buttare. (AS: 19)

Lo sguardo rivolto esclusivamente all'atlante anatomico sarebbe simbolo di quella razionalità cartesiana che, producendo una netta cesura tra res cogitans e res extensa, ha prodotto da un lato la svalutazione della sfera corporea, ridotta a mera macchina utilizzabile per la produzione e il lavoro, dall'altro ha sancito l'avvento di una forma di conoscenza che si è afferma attraverso la sottomissione dell'Altro. Sebald nota infine come il vivido realismo dell'opera sia contraddetto da un dettaglio: la mano dissezionata del cadavere sarebbe in realtà sproporzionata rispetto al corpo e anatomicamente scorretta. Solo apparentemente, dunque, Rembrandt celebrerebbe il nuovo sapere scientifico; egli al contrario denuncerebbe le storture prodotte dalla razionalità cartesiana che si è dialetticamente rovesciata in "mitologia" (Adorno, Horkheimer 1997: 19).

Nell’ékphrasis sono individuabili altri dettagli molto significativi, che permettono di dimostrare come Sebald realizzi una lettura ‘foucaultiana’ de La lezione di anatomia. Lo scrittore fa riferimento a un preciso dato storico: all’epoca di Rembrandt la dissezione poteva essere praticata solo sui cadaveri dei criminali, come accade nel caso di Aris Kindt. Si tratta di un dettaglio interessante poiché attesta come la lezione di anatomia si svolga in un momento storico in cui il potere disciplinare si è da poco consolidato in una specifica tecnologia come la prigione. In Sorvegliare e punire Foucault ricorda che a partire dall’ ’età classica’ il paradigma della prigione, a differenza di quanto accade durante la monarchia assoluta o da quanto teorizzato nelle teorie dei contrattualisti, si esplica in tecnologie disciplinari tendenti al controllo minuzioso del corpo al fine di renderlo "tanto più obbediente quanto più è utile, e inversamente [...]" (Foucault 1976: 150); le discipline hanno lo scopo di creare un "corpo [docile] che può essere sottomesso, che può essere utilizzato, che può essere trasformato e perfezionato" (Foucault 1976: 138). Esse, non a caso, si diffondono in concomitanza con la “nascita del capitalismo” (Dreyfus, Rabinow 2010: 194). Per addestrare e rendere docili questi corpi, ricorda ancora Foucault, il potere li scompone anzitutto in parti (mani, gambe ecc.), in "ingranaggi" (Foucault 1976: 185) allo scopo di ottenere una "docilità automatica" (ibidem) del corpo. Questo è considerato come una macchina le cui componenti vanno scomposte e addestrate singolarmente al fine di potenziare le capacità lavorative dell’insieme. Non a caso, Foucault definisce le moderne tecnologie disciplinari come un' "arte del corpo umano" (Foucault 1976: 150) o come una "anatomia politica del dettaglio" (Foucault 1976: 151).

L'inserimento del dipinto di Rembrandt costituisce una sorta di 'citazione intermediale', di visualizzazione di quell'"anatomia politica del dettaglio" di cui parla Foucault. L’ékphrasis sebaldiana riprende numerosi elementi della descrizione del potere disciplinare proposta dal filosofo francese: si pensi all’idea del corpo reso docile fin oltre i confini della morte, all’immagine del corpo come macchina utile per il lavoro, alla scomposizione del corpo nelle sue parti (il dettaglio della mano). Sebald vede dunque nell'opera di Rembrandt un manifesto della critica alla razionalità cartesiana, intesa come strumento di dominio e sopraffazione, e allo stesso tempo vi coglie la presenza di alcuni tratti fondamentali del paradigma carcerario così come sono stati teorizzati da Foucault. Questo non è certo un caso giacché le tecnologie disciplinari non sono un semplice ‘prodotto’ della razionalità cartesiana: la prigione costituisce per Sebald l’essenza stessa della modernità, rappresenta la ‘struttura trascendentale’ di quella logica, sottesa alla razionalità moderna, che tende a sottoporre a meccanismi coercitivi e di controllo tutto quanto entri nel proprio campo d’azione. L'equivalenza strutturale tra ragione cartesiana e prigione viene tra l'altro espressa attraverso la presenza, assai diffusa nella prosa, del Leitmotiv iconotestuale del reticolo [5], il quale diviene rappresentazione allegorica della rigida razionalità cartesiana e delle istanze normalizzatrici a essa sottese. Esso compare, ad esempio, nella pesca massiccia delle aringhe (AS: 58), nell’excursus sulla sericoltura (AS: 280 sgg.), nelle griglie cartesiane presenti nelle numerose carte geografiche[6] riprodotte nel testo (AS: 209), esempio delle pratiche disciplinari della modernità.

Il motivo del reticolo è rintracciabile anche in alcuni aspetti centrali della produzione estetica moderna. Nell’analizzare i dipinti di Rembrandt e Ruisdael (RS: 78-9), Sebald, sulla scorta delle analisi di Martin Jay (1993), individua nel “prospettivismo cartesiano” (Jay 1993: 69) il ‘regime scopico’ preponderante della modernità. Esso trova applicazione concreta nell’uso della prospettiva centrale, realizzata attraverso il velo albertiano. Celebre è la rappresentazione che ne dà Dürer in un'incisione del 1525 [Figura 3], e a questo sembra riferirsi l’immagine posta in limine alla prosa, la quale mostra la finestra (ricoperta da un reticolo) della stanza di ospedale in cui si trova l’io narrante. Il prospettivismo cartesiano, in cui un occhio ‘astratto’ osserva da una posizione privilegiata uno spazio considerato omogeneo e isotropico, diviene per Sebald metafora di un modello razionale che da un lato astrae dalla dimensione corporea, dall’altro ‘ingabbia’ e sottomette tutto quanto si trovi a cadere nel proprio campo di osservazione.

Il reticolo come allegoria della razionalità cartesiana trova infine il suo precipitato estetico in un modello testuale basato sulla trama che, come ricorda Brooks, si afferma a partire dal XVII secolo come “modello forte di organizzazione e di spiegazione del mondo” (Brooks 2004: 6) [7]. In questo modello testuale ogni elemento è collegato agli altri da una specifica connessione di tipo logico-causale e tende teleologicamente verso la fine, la quale a sua volta illumina di senso quanto precede. Nessun elemento è dunque casuale, ma viene piegato a esprimere una specifica significazione preordinata. Sebald vede in questo modello testuale un prodotto estetico della razionalità cartesiana e dei suoi meccanismi disciplinatori: ogni elemento tematico è per così dire ‘ingabbiato’ all’interno di una trama che ne veicola in modo univoco il senso. Del resto, nel corso della prosa, la scrittura e l’opera letteraria vengono chiaramente associate alla prigione, alla tortura e ai meccanismi disciplinatori della razionalità cartesiana. La prosa prende le mosse dalla descrizione della degenza in ospedale dell’io narrante, in cui egli si trova in una condizione di pressoché totale immobilità. Il reticolo posto sulla finestra evoca l’immagine di una grata e la stanza d’ospedale sembra assumere chiaramente i tratti di una cella di detenzione. Non è un caso che proprio in questa sorta di ‘prigione’ l’io narrante abbia iniziato “almeno col pensiero, a scrivere le pagine che seguono” (AS: 7). La creazione letteraria è dunque associata chiaramente alla dimensione ‘metaforica’ della prigione. Il reticolo che copre la finestra, inoltre, rimanda da un lato al velo albertiano, dall’altro, come ha notato Claudia Albes (2002: 297), evoca l’immagine di una pagina vuota che attende di essere riempita, mentre Richard Gray (2009), osservando la fotografia originale conservata presso l’archivio di Marbach, ha notato come alla base della finestra si trovino dei libri, scarsamente visibili nella riproduzione inserita nella prosa. Nel capitolo finale della prosa, dedicato alla sericoltura, Sebald vede nei “tessitori […] prigionieri delle macchine da noi stessi inventate” una figura allegorica “degli eruditi e scrittori di vario genere” (AS: 250). Nel corso della prosa è dunque palese la costellazione metaforica che associa la scrittura alla prigione e alla sua variante costituita dal reticolo. In un altro passo, la scrittura è vista come il prodotto di una “automutilazione” (AS: 230) inflitta dallo scrittore sul proprio corpo: evidente è il riferimento ad Aris Kindt che, in quanto vittima delle tecnologie disciplinari, diviene, al pari dei tessitori imprigionati nelle loro macchine, figura allegorica dell’artista sottoposto ai regimi disciplinari. Gli anelli di Saturno sono dunque il luogo in cui Sebald sottopone ad analisi critica la razionalità cartesiana individuandone l’essenza nelle pratiche disciplinatorie e nelle istanze normalizzatrici. La prosa rappresenta altresì il luogo di ‘resistenza’ a tali pratiche disciplinatorie: la scrittura dell’opera stessa costituisce in sé una possibile via di fuga dalla ‘prigione’ in cui lo scrittore (e l’uomo moderno in generale) si trova recluso. Non a caso la Wanderung descritta nella prosa non è guidata da alcuna progettualità o finalità specifiche: l'io narrante si muove in modo ‘anti-economico’, senza consultare alcuna cartina, visitando spesso luoghi abbandonati e desolati che non sono presenti nelle carte geografiche. La Wanderung si traduce inoltre in un modello testuale che è assolutamente anti-narrativo: la prosa inizia e termina in modo del tutto casuale, mentre i vari passaggi narrativi sono collegati non da chiari nessi di tipo causale, ma da passaggi analogici spesso assai labili e apparentemente immotivati. E’ attraverso questo specifico modello testuale che è possibile sottrarsi al controllo esercitato dal potere sulle ‘formazioni discorsive’ e cogliere quell’immagine della storia che è stata rimossa dagli archivi del potere. E’ dunque la scrittura letteraria, nella misura in cui essa dà origine a un dispositivo anti-narrativo, a profilarsi come unico strumento in grado di sottrarsi alla ‘prigione’, più o meno materiale, in cui l’uomo moderno è stato recluso dalla razionalità cartesiana.

3. La stella: Austerlitz.

In Austerlitz la prigione diviene oggetto specifico delle descrizioni e degli studi del protagonista eponimo della prosa. In essa un anonimo io narrante riporta i colloqui avuti con Jacques Austerlitz, fotografo dilettante e storico dell’architettura. La prosa consta di due blocchi narrativi: nel primo, le cosiddette “conversazioni anversane” (A: 14), il protagonista descrive il suo progetto di redigere un trattato (mai compiuto) concernente la storia dell’architettura europea nell’era capitalistica[8]. In questa parte il protagonista si sofferma a lungo sulla descrizione di stazioni ferroviarie e sulle tecniche di fortificazione militare. Nella seconda parte Austerlitz descrive gli sforzi compiuti per ricostruire il proprio traumatico passato, di cui aveva rimosso fino a poco tempo prima ogni traccia. Dopo la deportazione dei genitori avvenuta durante la seconda guerra mondiale, all'età di quattro anni Austerlitz viene allontanato da Praga per mezzo di un Kindertransport e messo in salvo in Inghilterra, presso la famiglia di un pastore anglicano, dove crescerà col nome di Dafydd Elias. Alla morte dei genitori adottivi, Austerlitz cercherà di ricostruire il proprio passato e si metterà alla ricerca di tutte le informazioni concernenti i propri genitori.

L’interesse del protagonista per le stazioni e per le fortificazioni è strettamente legato al suo passato rimosso: egli stesso dichiara espressamente che “la mole di sapere” che aveva accumulato per decenni “fungeva da memoria surrogata e di compenso” (A: 154). Le stazioni evocano indirettamente la Shoah poiché in esse venivano condotti i prigionieri che sarebbero stati deportati nei campi di concentramento o da esse partivano per trovare scampo, come accaduto allo stesso Austerlitz nella Livepool Street Station di Londra. Analogamente, le fortezze studiate da Austerlitz, come Fort Breendonk o Theresienstadt, saranno poi utilizzati dai nazisti come prigioni, lager o ghetti. L’interesse per questi edifici architettonici va però ben oltre la mera allusione alla deportazione giacché essi illustrano, con la loro storia, quel rovesciamento dialettico della ragione in barbarie che ha caratterizzato la razionalità moderna. Questo appare evidente nella descrizione della fortificazione di Anversa. Austerlitz ricorda come la costruzione della fortezza, almeno nelle intenzioni dei suoi costruttori, dovesse ispirarsi ai più alti modelli di razionalità, come testimoniato dall' “inventiva [...] contenuta nei suoi calcoli geometrici, trigonometrici e logistici” (A. 22). Austerlitz nota inoltre come essa sia stata edificata ricorrendo alla pianta “a forma di stella […] un modello di tipo ideale, derivato per così dire dalla sezione aurea […]” (A: 22). Allo stesso tempo, il protagonista sottolinea “tutta la follia” che caratterizza “il sistema-fortificazione” (A: 24) poiché, nello sforzo di accrescere e aggiungere un numero sempre maggiore di cinte murarie, la costruzione ha dato vita a uno “sviluppo paranoide” (A: 23) che, richiedendo sempre maggiori tempi per la costruzione, ha reso le mura sostanzialmente “già superate” (A: 23) e inutili “per la difesa della città e del territorio” (A: 25). La fortezza, che doveva essere costruita secondo le tecniche ingegneristiche più avanzate del tempo, appare paradossalmente come una ‘rovina’, appare 'desueta' ancor prima di essere terminata. Questo rovesciamento dialettico della razionalità in irrazionalità è particolarmente evidente nella terza e ultima cinta muraria, Fort Breedonk, che sarà utilizzata poi dai nazisti come prigione per interrogare e torturare numerosi prigionieri politici, tra cui Jéan Amery.

In seguito all'incontro con Austerlitz, l'io narrante si reca a visitare in prima persona la prigione di Fort Breedonk:

Dalla conversazione del giorno prima avevo ancora in mente l'immagine di un bastione a forma di stella con mura che si ergevano alte su una precisa pianta geometrica: quella che invece mi ritrovai davanti fu una massa di cemento schiacciata, dai fianchi esterni completamente arrotondati, che suscitava l'assai sgradevole impressione di una gobba o di una pagnotta, l'enorme schiena - pensai - di un mostro che era emerso lì dal terreno delle Fiandre. [...] Da qualsiasi punto di vista provassi a guardare la costruzione mi era impossibile riconoscervi un progetto architettonico [...] e trascendeva in tal misura la mia facoltà di comprendere, che alla fine non riuscii a collegarla con nessuna configurazione a me nota della civiltà umana, nemmeno con i muti relitti della nostra preistoria o protostoria [...]. (A: 27-8)

Quello che doveva ispirarsi ai più alti modelli di razionalità, rappresentati dalle planimetrie geometriche o dalle piante a sezione aurea, appare al narratore come una costruzione irrazionale e incomprensibile, una sorta di mostro "granchiforme" (A: 30) [Figura 4che sembra piuttosto il "parto del brutto e della cieca violenza" (A: 28). Il rovesciamento dialettico della razionalità in barbarie è incarnato chiaramente da un Leitmotiv iconotestuale assai diffuso nella prosa: quello della stella. Questa, da simbolo della perfezione e della razionalità, è divenuta tragico simbolo della Shoah. Il modello architettonico sotteso ai progetti di costruzione delle fortificazioni sottolinea altresì come la prigione si sia affermata storicamente come il caso limite di una ‘società ideale’, perfettamente organizzata in tutte le sue componenti, così come era stata coltivata nell’ambito delle organizzazioni militari. Foucault ricorda a tal proposito come la prigione, nei primi tempi, non fosse integrata nel sistema penale, ma fungesse piuttosto da strumento analitico di controllo il cui compito era quello di classificare e dividere gli individui in base al grado di pericolosità sociale. La grande diffusione della prigione come istituzione penale deriverà dalla sua adesione a questo progetto di ‘società ideale’, cioè a un modello di società attraversato in ogni suo aspetto da una fortissima istanza normalizzatrice.

Analoghe caratteristiche mostra un altro spazio afferente alla dimensione carceraria: il ghetto di Theresienstadt (Terezín). Theresienstadt era un piccolo borgo situato nei dintorni di Praga, dove tra il 1780 e il 1790 viene costruita una fortezza utilizzata per i detenuti politici. Nel 1940 cade sotto il controllo della Gestapo, la quale trasforma la Kleine Festung (piccola fortezza) in prigione, mentre nel 1941 l’intera cittadella (Grosse Festung) verrà trasformata in un ghetto.

Agli occhi del protagonista, Theresienstadt appare come una costruzione ormai in rovina, ricoperta “da ogni sorta di cespugli e arbusti […] e in gran parte già scomparsa nel terreno paludoso della zona alluvionale” (A. 202), quasi fosse in procinto di essere fagocitata dalla natura circostante. Anche Theresienstadt, in quanto città fortificata, è stata edificata su una pianta a stella [Figura 5], “costruita secondo un rigoroso schema geometrico come l’ideale Città del sole di Campanella” (A: 204). Ritornano qui i motivi della prigione come 'città ideale' e della stella come allegoria del rovesciamento dialettico della razionalità.

Durante la successiva visita al museo del ghetto, Austerlitz è “abbacinato dai documenti sulla politica demografica dei nazionalsocialisti, dalla loro smania incontestabile per l’ordine e la pulizia, messa in pratica con un enorme dispendio di mezzi” (A: 214). Egli acquisisce qui, per la prima volta, consapevolezza dei meccanismi ‘biopolitici’ messi in atto dal nazismo con una razionalità che paradossalmente “superava la mia capacità di comprensione” (A: 214). Con la successiva lettura del voluminoso saggio di Adler (2001) dedicato al “Ghettosystem” di Theresienstadt, Austerlitz giunge a conoscenza del

sistema totalizzante di internamento e di lavoro coatto in vigore a Theresienstadt, che alla fine non aveva altro scopo se non quello di distruggere la vita, e il cui progetto articolato, ricostruito da Adler, regolava tutte le funzioni e le competenze con un delirante zelo amministrativo [...] – su questo sistema […] bisognava vigilare costantemente e fornire un rendiconto statistico, con particolare riguardo al numero complessivo degli abitanti del ghetto […]; anche per questo i responsabili delle SS, per i quali la correttezza in fatto di numeri rientrava tra i principi supremi, organizzavano spesso dei censimenti della popolazione […] (A: 258).

Nella descrizione del ghetto Sebald evidenzia come il nazismo abbia “spinto al parossismo il gioco tra il diritto sovrano di uccidere e i meccanismi del biopotere” (Foucault 1998: 225), cioè il controllo esercitato non più sul singolo corpo, ma sui “processi che sono specifici della vita, come la nascita, la morte, la procreazione, la malattia” (Foucault 1998: 209). Nel caso di Theresienstadt, inoltre, il nesso tra prigione e 'città ideale' appare ancor più evidente: il “Ghettosystem” realizzato dai nazisti nasce paradossalmente come “modello di un mondo dischiuso dalla razionalità e regolamentato fin nei minimi dettagli” (A: 215), come realizzazione di un modello sociale in cui le istanze di normalizzazione, di catalogazione e divisione sono finalizzate all'annientamento dell'Altro.

E’ significativo notare come in Austerlitz all'immaginario carcerario siano riconducibili non solo luoghi come le prigioni, i ghetti e i lager, ma anche istituzioni come le biblioteche o i musei. Sebald sembra voler sottolineare un’inquietante contiguità tra la prigione e l’archivio, cioè il luogo deputato alla conservazione e al controllo del sapere. Centrale risulta anche qui la lezione di Foucault, per il quale il progetto della modernità si serve di una logica ambivalente basata sulla rigida dicotomia inclusione/esclusione. Questa logica trova la sua manifestazione più precipua nell'archivio che, secondo il filosofo, non coincide con la somma di tutti i materiali che possono essere conservati, ma è la legge stessa di quello che può essere conservato e archiviato:

L'archivio è anzitutto la legge di ciò che può essere detto, il sistema che governa l'apparizione degli enunciati come avvenimenti singoli. Ma l'archivio è anche ciò che fa sì che tutte queste cose dette non si ammucchino all'infinito in una moltitudine amorfa, non si iscrivano in una linearità senza fratture e non scompaiano solo per casuali accidentalità esterne. [...] L'archivio [...] è ciò che, alla radice stessa dell'enunciato-evento e nel corpo in cui si dà, definisce fin dall'inizio il sistema della sua enunciabilità. (Foucault 1994: 36)

L'archivio è dunque uno strumento di potere che programma e determina ogni forma di discorsività. Esso si basa inoltre su una logica contraddittoria: da un lato vi è l'aspirazione alla creazione di un onnicomprensivo ordine razionale, a una catalogazione del reale, dall’altro questo comporta inevitabilmente che quanto non trova posto in tale ordine venga necessariamente sentito come minaccioso Altro che va eliminato. Alla sistematizzazione e catalogazione è inevitabilmente legata la produzione ed eliminazione dell'Altro, del diverso, del rifiuto: ancora una volta la moderna razionalità si rovescia nel suo contrario. Questo tratto è stato tra gli altri sottolineato da Derrida (1996), per il quale all'archivio è intrinseca una forma di violenza poiché esso elimina ogni forma di alterità, distrugge ogni elemento eterogeneo.

Austerlitz visita e consulta numerosi archivi nel corso della narrazione. Uno di questi è rappresentato dall'archivio di stato di Praga, il cui edificio ricorda "l'architettura carceraria dell'epoca borghese, in cui il modello delle celle in successione, costruite intorno a un cortile rettangolare o rotondo e provvisto sul lato interno, si è affermato come il più' pratico per gli istituti di pena" (A: 213). Evidente è qui il riferimento alla tecnologia disciplinare del carcere e in particolar modo al progetto del panopticon benthamiano analizzato da Foucault in Sorvegliare e punire. Il protagonista si imbatte poi in una fotografia (inserita nel testo) della cosiddetta "stanza del registro" (Registraturkammer), presente nel ghetto di Terezín: essa "raffigura una stanza tutta caselle, dal pavimento al soffitto, in cui oggi vengono conservati i documenti dei prigionieri reclusi nella cosiddetta fortezza piccola di Terezín" (A: 299). Il 'sistema Theresienstadt' appare come la paradossale applicazione di una logica archiviale che tende a catalogare, classificare, e quindi distruggere le vite umane.

Alle caratteristiche della prigione rimandano anche la 'vecchia' e la 'nuova' biblioteca nazionale di Parigi, dove Austerlitz si reca per le sue ricerche di storico dell’arte. L'ambizione alla catalogazione del sapere, tanto eroica quanto fantastica, sottesa alla biblioteca è incarnata dal personaggio che siede spesso accanto ad Austerlitz. Si tratta di

un anziano signore [...] il quale lavorava da decenni alla compilazione di una storia ecclesiastica, opera in cui era arrivato alla lettera K e che quindi non sarebbe mai riuscito a portare a termine. (A: 301)

Come osserva Anne Fuchs (2004: 44 e 176 sgg.), lo studioso tende a catalogare il sapere secondo un preciso ordine razionale (in questo caso quello alfabetico) che è riflesso dell'organizzazione del più ampio archivio della biblioteca, basato sulla conservazione dei documenti, ma anche sulla loro organizzazione unitaria e razionale. La biblioteca appare inoltre come una sorta di realtà parallela autosufficiente che, con un'immagine che Austerlitz desume dal film di Resnais Toute la mémoire du monde, assume le sembianze di "un organismo altamente complesso e in continuo sviluppo, sempre bisognoso, per nutrirsi, di miriade di parole, al fine di produrre, dal canto suo, nuove miriadi di parole" (A: 277). Anne Fuchs nota ancora come nel film di Resnais la biblioteca assuma un carattere ambivalente. Da un lato essa si presenta come un organismo vivente o come una fortezza che imprigiona le parole (“Wortgefängnis”, Fuchs 2004: 46), ma allo stesso tempo presenta per certi versi aspetti eroici nella misura in cui quell'essere mostruoso lotta per la propria sopravvivenza contro l'oblio o la fortezza imprigiona un patrimonio culturale per salvarlo dalla oblivio universalis. Questo carattere ambivalente connota anche la 'vecchia’ biblioteca nazionale descritta nella prosa, tanto che Austerlitz, una volta al suo interno, non sa se si trova "nel paradiso dei beati o in una colonia penale" (A: 278). Tale ambivalenza non è invece presente nella ‘nuova’ Biblioteca Nazionale. Se la vecchia biblioteca era allegoria di una memoria in precario equilibrio tra l'eroica accumulazione del sapere e la fobica difesa nei confronti dell'oblio, la nuova si colloca pienamente nell'alveo di quella razionalità normativa che, come visto, è tratto caratteristico della modernità. La nuova biblioteca si trova “in una desolata terra di nessuno” (A: 292) ed è caratterizzata da una architettura "monumentale" (A: 292) che, con le sue quattro torri angolari, suscita "un'impressione babelica" (A: 294) e la rendono simile a uno "ziqqurat". Essa è inoltre organizzata secondo un "piano cartesiano" (A: 297) che la rende molto più simile a un labirinto o a una prigione: durante la sua prima visita Austerlitz si imbatte, all'ingresso, in una porta "chiusa con catena e lucchetto, e davanti alla quale bisognava lasciarsi perquisire dagli addetti alla sicurezza vestiti con una specie di uniforme" (A: 294-6); la consultazione del materiale risulta sottoposto a rigide "misure di controllo" (A: 296); il sistema informatico, che doveva rappresentare il massimo dell'efficienza razionale, si rivela in realtà caotico e inutilizzabile. Austerlitz evidenzia come l'aspirazione alla "perfezione assoluta, onnicomprensiva", sottesa alla progettazione della biblioteca, coincida alla fine "con una disfunzione cronica e una labilità costituzionale" (A: 298), tanto che "questa nuova, immane biblioteca, che [...] dovrebbe essere la nostra banca dati del nostro intero patrimonio scritto, si è rivelata inutilizzabile". (A: 298). L'istanza normativa della razionalità occidentale si traduce in un meccanismo che 'imprigiona' e distrugge quanto intende classificare, dividere e catalogare. E' questa del resto, come si è detto, il meccanismo alla base del "Ghettosystem" e non è un caso che la biblioteca, come Austerlitz verrà a sapere da un bibliotecario, sia stata eretta in un luogo dove i nazisti avevano accumulato e rigorosamente classificato i beni sottratti ai deportati nei campi di concentramento: alla base del "Ghettosystem" e dell'archivio opera la stessa aberrante logica 'classificatoria' che porta a imprigionare e poi distruggere quanto viene inglobato nelle griglie del "piano cartesiano". La nuova biblioteca nazionale appare così come un 'luogo della memoria' (Nora) paradossale poiché essa non assolve alla sua funzione di salvaguardare e tramandare il patrimonio culturale occidentale, ma favorisce il "progressivo atrofizzarsi della nostra capacità mnemonica che va di pari passo con il proliferare dell'informazione" (A: 302). La biblioteca diviene allegoria non della conservazione, ma della rimozione della memoria culturale e individuale.

Vi è un altro edificio che mostra caratteristiche che evocano l'immagine della prigione: si tratta della Liverpool Street Station di Londra, nella cui Ladies Waiting Room il protagonista ha la prima epifanica rammemorazione di parte del proprio passato represso. Austerlitz ha l’impressione che in quella stazione si siano ‘sedimentati’ gli eventi passati, che quel luogo contenga "tutte le mie ore trascorse, tutte le mie angosce e i miei desideri da me sempre repressi e soffocati" (A: 150). E in effetti questo passato ritorna in modo inaspettato e sub specie phantasmatis. La stazione appare infatti come ”una specie di antinferno” (A: 141) popolato non da passeggeri reali, ma da presenze spettrali. Tra questi Austerlitz scorgerà se stesso bambino, mentre viene portato in salvo dal padre adottivo. L'ingresso nella stazione e nella successiva sala d'aspetto si configurano pertanto come una sorta di vékuia finalizzata all’evocazione negromantica del proprio passato. Come hanno notato in molti[9], la descrizione della stazione richiama le Carceri di Piranesi [10] [Figura 6], come si può evincere chiaramente dal passo seguente:

vidi anche dischiudersi davanti a me spazi immensi, vidi file di pilastri e colonne che conducevano nelle più remote lontananze, volte e archi murati che reggevano piani su piani, gradinate, scale di legno e a pioli, che invitavano lo sguardo a spingersi sempre più in alto, passerelle e ponti levatoi che sormontavano gli abissi più profondi e sui quali si affollavano minuscole figure, prigionieri – così mi veniva da pensare, disse Austerlitz – alla ricerca di una via d’uscita da quel carcere segreto. (A: 149)

Con le Carceri la Liverpool Street Station condivide l’aspetto ctonio, la componente onirica, l’elemento monumentale e allo stesso tempo desueto che caratterizza, come si è visto, tutte le strutture architettoniche della modernità. Le carceri piranesiane e la stazione sono altresì accomunate dalla struttura labirintica e intricata. La Liverpool Street Station fornisce così una sorta di 'visualizzazione' spaziale della psiche del protagonista (e della relazione tra conscio e inconscio) caratterizzata dalla presenza di lacerti mnestici e di ricordi rimossi:

ricordi dietro i quali e nei quali si celavano cose risalenti ancora più in là nel tempo ed embricate le une sulle altre, così come le volte labirintiche, che mi parve di distinguere nella luce grigio polvere, si susseguivano in una serie infinita. (A: 150)

Il riferimento al carcere piranesiano non ha tuttavia una funzione esclusivamente negativa. Da un lato, in quanto costruzione frammentaria e labirintica, l’immagine del carcere permette di visualizzare la struttura intricata della psiche del protagonista; dall’altro, la stazione evoca in Austerlitz l’idea di un edificio in fase di costruzione/ristrutturazione che prelude a una sorta di palingenesi. Questo tratto salvifico è sottolineato dal protagonista allorquando, tra le rovine della stazione, osserva in alto alcune piante dove gli aironi hanno nidificato:

A un tratto mi parve di vedere lassù, molto in alto, una cupola spaccata, ai bordi della quale crescevano su un parapetto felci e giovani salici e arbusti di altro genere; lì in mezzo gli aironi avevano costruito nidi grandi e disordinati, e io li vidi allargare le ali e volarsene via nell’aria azzurra. Ricordo, disse Austerlitz, che davanti a quello spettacolo di prigionia e libertà, tormentosa si fece in me la domanda se mi trovassi all’interno di una rovina o di un edificio ancora in costruzione. (A: 149)

Non è dunque un caso che proprio nella Liverpool Street Station Austerlitz ricordi parte del proprio passato, tanto da avere l’impressione di “non essere mai stato in vita o di essere venuto al mondo solo allora” (A: 151). Alla discesa negli inferi della propria memoria individuale segue la palingenesi, una nuova nascita avvenuta grazie al recupero e alla rivitalizzazione dei ricordi imprigionati nei meandri della propria memoria. A tal proposito, Silke Arnold-de Simine (2006: 162) fa notare come nella descrizione della stazione, oltre al modello piranesiano, siano rintracciabili numerosi elementi (la vegetazione sulle rovine, il volo degli aironi) che rimandano all'iconografia della nascita di Cristo tra rovine ricoperte di vegetazione: la studiosa cita in particolar modo il Kolumbanaltar di Rogier van der Weyden e l’Altare di Paumgartner di Albrecht Dürer [Figure 7 e Figura 8].

E’ tuttavia importante sottolineare come quello della Ladies Waiting Room sarà sostanzialmente l’unico episodio in cui il protagonista riesce a riappropriarsi in modo autonomo, si potrebbe dire ‘proustiano’, dei propri ricordi. Per recuperare tutti gli altri ricordi del proprio passato Austerlitz dovrà necessariamente affidarsi a forme mnestiche archiviali ‘esterne’ alla sua soggettività che, tra l'altro, risulteranno sostanzialmente inaffidabili: la logica dell’archivio domina e 'imprigiona' anche la soggettività controllandone le capacità mnestiche. Austerlitz appare dunque come un “archivial subject” (Long 2008: 162), un soggetto alienato, non presente a se stesso nella misura in cui le sua memoria personale risulta 'esterna', 'ingabbiata' nei dispositivi archiviali prodotti dalla razionalità cartesiana. Non a caso, l’unico momento in cui il passato viene recuperato in modo genuino avviene sub specie phantasmatis, secondo modalità che si pongono chiaramente in opposizione alla razionalità cartesiana. Se dunque le carceri di Piranesi visualizzavano l’intrico dei ricordi rimossi di Austerlitz, ma allo stesso tempo preannunciavano una possibile palingenesi, non sembra esservi scampo alla ‘prigione' prodotta dalla logica dell’archivio.

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[1] Per una rassegna sui principali topoi della critica sebaldiana è ancora utile Long 2007.

[2] Sull'influenza di Adorno e Horkheimer nell'opera di Sebald si veda: Hutchinson 2009; Agazzi 2012.

[3] Su questo tema mi permetto di rimandare a un mio lavoro (Ribatti 2012).

[4] Fondamentali, a tal proposito, sono i lavori di Long (2006; 2008).

[5] Sull’importanza di questo tema nella prosa si vedano: Lethen 2008, Gray 2009.

[6] Sul ruolo della carte geografiche nella prosa sebaldiana si veda Long 2008.

[7] Sulla metafora testuale della trama si veda anche Pietromarchi 2002.

[8] Sul significato dell’architettura in Austerlitz si veda Kilbourn 2004.

[9] Si vedano Arnold-de Simine 2006, Martin 2007, Horstkotte 2009.

[10] Su Piranesi si veda: Rossi Pinelli 2004; Praz, Focillon (a cura di) 2011.

Biografia autore

Nicola Ribatti, Università degli Studi di Siena

Nicola Ribatti ha conseguito un primo dottorato in Teoria della Letteratura presso l'Università degli Studi di Trento e un secondo dottorato in Letterature Comparate e Teoria della Traduzione presso l'Università degli Studi di Siena. I suoi interessi vertono sulla letteratura tedesca moderna e contemporanea, sulla teoria della letteratura e sulla cultura visuale. Ha pubblicato saggi su Walter Benjamin, W. G. Sebald, Monika Maron, Uwe Timm, Kurt Drawert e Marcel Beyer. Sta curando per i tipi Artemide un volume dedicato al tema memoria e fotografia nella letteratura tedesca contemporanea.

Pubblicato

15-12-2013

Come citare

Ribatti, N. (2013). Il reticolo e la stella - note sull’immaginario carcerario nella prosa di W. G. Sebald. Elephant & Castle, (9). Recuperato da https://elephantandcastle.unibg.it/index.php/eac/article/view/410

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