Il carcere delle classi lavoratrici, il carcere delle classi pericolose

Autori

  • Maria Grazia Meriggi Università degli Studi di Bergamo

Abstract

Ospite – lieta di esserlo – di una rivista che percorre le strade della letteratura e degli immaginari, farò un breve intervento rievocando un momento della storia sociale delle prigioni all’incrocio fra le classi pericolose e le classi lavoratrici.

Innanzitutto come Michel Foucault ha ricordato agli storici, e nonostante le singolari rimozioni dei suoi studi, sottolineiamo che il carcere ha una storia relativamente breve nella lunga vicenda penale e ha a che fare con l’intenzione di disciplinare ed educare le classi pericolose che Victor Hugo ci descrive così mirabilmente come i selvaggi accampati alle soglie e nei sotterranei della città. La città in rapida trasformazione secondo i suggestivi versi di Baudelaire del ’57: Le vieux Paris n’est plus (la forme d’une ville/ change plus vite hélas! que le coeur d’un mortel) …

Foucault ha rimosso dalla sua analisi della penalità, dal supplizio “splendente” al dressage disciplinale carcerario, gli anni cruciali della Grande rivoluzione[1], ma, come si è detto, serviamoci della sua fama per ricordare che il carcere si generalizza con l’intervento di molti elementi quali la certezza dell’identità, la necessità del disciplinamento generalizzato a un uso razionale della forza lavoro e del tempo, l’introiezione della disciplina (di cui i lavoratori organizzati faranno un uso certamente anche autonomo e conflittuale). Ma nel grande romanzo francese – Balzac e Hugo – il carcere è ancora quello di Ancien Régime in cui l’agente di polizia è un mouchard inevitabilmente compromesso con i bassifondi che è tenuto a sorvegliare e in cui è protagonista il bagno penale, erede più delle galere dei secoli precedenti che del carcere disciplinare ottocentesco.

Il bicentenario della nascita di Hugo con la fioritura di opere che ha prodotto, il seminario permanente di Guy Rosa a Parigi: molti elementi hanno contribuito a “rivalutare”il pensiero e il ruolo politico di Hugo, il suo repubblicanesimo “sans phrase”, la sua precoce riflessione sull’Europa. Personalmente non credo che i severi giudizi sul Pari di Francia moderato, diffidente verso il radicalismo operaio, che vota contro gli Ateliers Nationaux e si contrappone agli insorti del giugno – ma fin da settembre si batte per la tolleranza verso gli insorti – vadano corretti. Del resto intellettuali e osservatori diversi quali A.Tocqueville, P.J. Proudhon, G. Sand... aristocratici, democratici, amici del popolo si sono ritratti con orrore o nella migliore delle ipotesi hanno esitato davanti a questa prima manifestazione di una Repubblica che poneva i bisogni del mondo del lavoro come valore fondativo e il conflitto come fonte di legittimità democratica.

La grandezza dell’ immense Hugo – credo che la definizione sia di Baudelaire – sta invece in una capacità di trasfigurazione travolgente e oceanica di una realtà sociale non compresa ma conosciuta, nel senso indicato da Louis Chevalier[2]. L’ambivalenza qui indicata, che costituisce il cuore stesso dei Misérables, è condivisa del resto da tutta la letteratura umanitaria e filantropica sulle masse urbane dallo statuto incerto (per i suoi osservatori) fra classi pericolose e classi lavoratrici. È noto, infatti, che né nella vita quotidiana descritta nel romanzo né nel mondo dell’ABC [3] e delle cospirazioni segrete che pure percorrono i Misérables si incontrano mai un operaio interessato a tariffe e contratti, un artigiano, un industriale desideroso di arricchirsi: il mondo del lavoro è un territorio da cui entrano ed escono i rodeurs de barrières di Patron-Minette [4] o è evocato in tono derisorio da Thénardier, piccolo borghese tradizionale rovinato e precipitato nella grande città-laboratorio della modernità. La fabbrica di Madeleine tradisce irresistibilmente il modello conventuale. Molti tratti del mondo popolare dei Misérables‚ scritti negli anni dell’esilio, rimandano a modelli letterari, assomigliano al mondo di Retif de la Brétonne, pur detestato da Hugo. Detestato, perché se il “figlio della vandeana” aveva accettato i giganti Robespierre e Marat e ammirava il generale Championnet, quell’enfant trouvé che, da generale, aveva “indotto” al miracolo anche san Gennaro, continuava a odiare i Rousseau des ruisseaux, il cui materialismo anticlericale e vagamente spartitorio attribuisce malignamente alla non illetterata coppia Thénardier... Anche lo scambio di figli fra la Magnon e Thénardier risente di modelli letterari. E poi Javert, figura come Valjean estranea alla storia, uomo d’Ancien Régime nella fissità al ruolo come nella storia personale, profondamente a disagio nel perseguire i reati politici di cui non comprende i confini, parla di un rapporto ancora arcaico fra classi pericolose e potere. Come il suo modello Vidocq cui rimanda continuamente. Lui e Jean Valjean passano attraverso il Termidoro, l’Impero e la Restaurazione reclusi in una pura condizione di passività verso un potere troppo estraneo per essere discusso e persino conosciuto. Il più arcaico è proprio Javert, il figlio del galeotto e della tireuse de cartes inorridito da ogni forma di meticciato sociale. La sua sterile onnipotenza si apparenta più a quella rovinosa del balzacchiano Vautrin che a quella, in fondo moderna e produttiva‚ della fabbrica di jais fondata da Madeleine-Valjean, da cui, in fondo, esce il denaro che, solo, opera il miracolo di fare di Cosette una sposa invidiata, e di Marius un avvocato, blando oppositore in attesa della migliore delle Repubbliche. Ma accanto a questi anacronismi nutriti di profondo timore per il brulichio dei conflitti nati dal bisogno, la verità “oceanica” emerge dalle descrizioni di Parigi, delle sue barriere e dei suoi sobborghi, dei quartieri dell’Est, delle trasformazioni edilizie e urbanistiche che accoglievano in garnis miserabili quegli stessi operai che riempivano la place du Châtelet o arrivavano per terminare il loro apprendistato. Thénardier è il riflesso di un orrore oscuro per le “tenebre”sociali, ma la masure Gorbeau con l’avenue de l’Observatoire e la rue Mouffetard, e le vicine fabbriche di prodotti chimici sono il teatro in cui, dopo aver letto le pagine dei Misérables, non si può fare a meno di collocare altri percorsi della Parigi proletaria.

Nel romanzo tuttavia lo scandalo per un’illegalità collettiva radicata nei bisogni materiali dei lavoratori e nella loro specifica moralità echeggia ancora. Scrive a proposito della barricata del faubourg Saint-Antoine: «In quel riparo c’era qualcosa di una cloaca, e qualcosa di olimpico in quell’ammasso. Vi si vedeva un disordine pieno di disperazione, dei colmi di tetto, dei pezzi di mansarde ancora con la carta da parati, dei telai di finestra con tutti i vetri piantati nelle rovine, in attesa del cannone. [… ] mille povere cose che anche un mendicante avrebbe rifiutato, che contengono al tempo stesso il furore e il nulla. Si sarebbe detto che c’era lo straccio di un popolo, uno straccio di legno, di ferro, di bronzo, di pietra e che il faubourg Saint-Antoine l’avesse spinto alla sua porta con un colossale colpo di scopa, facendo, della sua miseria, la sua barricata. » A distanza di tanti anni e pur essendo passato attraverso l’opposizione all’Impero e l’esilio, Hugo trovava ancora imperdonabile quell’ insurrezione che partiva dagli interessi e dai bisogni e aspirava a prevenire l’estensione senza riserve del mercato del lavoro. Eppure Hugo fin dal 1876 unisce la sua voce autorevole a quella dei radicali per chiedere l’amnistia dei Comunardi, gli insorti illuminati dal patriottismo e dal sacrificio.

Tutta la battaglia dei lavoratori fra “monarchia borghese” e III Repubblica sarà invece per liberarsi dell’identificazione con le classi pericolose e quindi per affermare di essere soggetti in prima persona. E di far riconoscere le specifiche forme di illegalità connesse con i conflitti economici, la “coalizione” e lo sciopero, come reati politici. Quindi per portare i proprio bisogni collettivi nel cuore del sistema politico. Una battaglia che non termina con la legalizzazione delle coalizioni nel 1864, perché una “guerriglia” istituzionale percorre il secolo fino ai processi e decreti di scioglimento della Cgt degli anni Venti e fino agli arresti o tentati arresti del 1953 di dirigenti nazionali come Benoît Frachon.

Negli anni della monarchia orléanista, per le autorità giudiziarie, ancor più che per gli imprenditori organizzati, il confine fra “classi lavoratrici” e “classi pericolose” si situava, infatti, nella visibilità pubblica, nel controllo del territorio urbano, e, naturalmente, nella violazione della “libertà di lavoro”.[5]

Questo confine, fra classi lavoratrici e classi pericolose, per gli operai quali emergono dalla documentazione del tempo, non era esclusivamente oggettivo – legato agli standards di vita e alla difficile continuità del lavoro – ma soggettivo, nella diversa gerarchia delle illegalità, nella rinuncia ai piccoli reati della sopravvivenza, nel modo di scegliere o di allontanare leaders naturali dei gruppi operai, di accettare pienamente la dinamica della rappresentanza politica. Le forme e i modi adottati durante gli scioperi possono dunque apparire di volta in volta residui di mob oppure forme di organizzazione innovatrice. Ciononostante, l’identificazione fra operai e mob, fra eccedenza di popolazione urbana e popolazione carceraria potenziale era ancora, per molti notabili degli anni che stiamo esaminando, un’evidenza indiscutibile.

Nella primavera del 1845, durante la discussione alla Camera dei Pari sulla regolamentazione del lavoro carcerario, il relatore Flavigny sostenne – suscitando indignazione sulle colonne della stampa d’opposizione – che la concorrenza al ribasso che esso provocava non doveva rappresentare un problema perché «il prigioniero è un operaio che, entrando in prigione, crea un vuoto nelle fila del suo mestiere [dans les cadres de son corps de metier]» e quindi il posto lasciato libero poteva essere occupato da un altro operaio. Mi pare che quest’affermazione che non si voleva polemica – Flavigny, pari di Francia, sarà poi un grande notabile rallié a Napoleone III – sia significativa del punto di vista rispetto al quale i lavoratori si opposero nel loro cammino verso la respectability.

Qualche esempio. Nel febbraio del 1841, “l’Atelier” – il giornale operaio che costituisce una fonte ricchissima di informazioni per i movimenti sociali di quegli anni – riferì che secondo la “Gazette des Tribunaux” gli operai tipografi di Parigi nel mese precedente avrebbero realizzato una coalizione mentre, secondo “l’Atelier”, avevano solo reagito a un attacco alla loro dignità, rifiutando di lavorare per un salario arbitrariamente ribassato. Nel marzo del 1841 il giornale denunciò la detenzione preventiva, che si era prolungata per ben sei mesi, di due sarti, P.Whary e Weymans, arrestati per coalizione. Essere messi ingiustamente in carcere con i “veri” malfattori e ladri […] «è quanto accade ogni giorno agli operai travolti da un sentimento onorevole, che hanno fatto coalizione senza saperlo, che come voi, signori, hanno commesso un reato politico, la cui reputazione di onestà e onore è uguale alla vostra». [6]

“L’Ami des ouvriers” di Saint-Etienne scriveva in quegli stessi giorni che padroni e operai delle passamanerie avevano fondato una società commerciale per la creazione di un’industria di nastri, che doveva regolare gli orari, garantire un soccorso a vedove, invalidi, orfani e vecchi e l’educazione gratuita ai membri della società e fornire anche una buona occasione d’investimento. Nel segnalarlo “L’Atelier” non fece commenti. Denunciò invece vibratamente che nell’agosto del 1841, «a Maçon si è versato del sangue, sangue degli operai, per una questione di salario». Mentre il ministro Mahul, a proposito di un altro fatto analogo avvenuto a Toulouse, aveva sostenuto che «era suo diritto e suo dovere versare il sangue dei faziosi e che se non lo aveva fatto era solo perché le circostanze glielo avevano impedito».

Un significativo punto di vista sul rapporto fra classes travailleuses e classes dangereuses ce lo suggeriscono gli elenchi degli individui sottoposti a sorveglianza. Essi ci indicano in generale una percezione del pericolo sociale legata a temi tradizionali. Il periodo cui facciamo riferimento comprende documenti dal 1842 al 1849[7]. Si tratta dell’elenco alfabetico degli individui sottoposti a sorveglianza di polizia dopo la liberazione in seguito a precedenti condanne, provenienti da tutti i dipartimenti. Prevale, al punto da apparire quasi esclusiva, la condanna per «vagabondaggio e mendicità» seguita dal «furto». Gli individui sottoposti a sorveglianza erano quasi sempre d’origine operaia, salariati di città o di campagna. Ex sarte o sarti, giornalieri di campagna, coltivatori, carpentieri, muratori, terrazzieri, qualche volta persino minatori, caduti nella mendicità in momenti di crisi economica o per vicende private, e poi presi nel circuito del carcere. Al vagabondaggio seguiva spesso un’altra condanna per «violazione del divieto di soggiorno [rupture de ban]». Qualche rarissima volta il vagabondaggio era aggravato da «incendio» o «tentativo di incendio in un bosco». Ma non c’erano ex-condannati per coalizione e sciopero in questi elenchi. Né liberati e graziati dopo i processi militari di giugno. La rivendicazione di decoro e rispettabilità degli operai dell’ “Atelier” dunque era condivisa, in un certo senso, dalle autorità. I condannati per coalizione ritrovavano una società di riferimento e quindi anche una casa, una relativa protezione, e un forte controllo sociale. Il libretto del resto garantiva un’ulteriore sicurezza a proposito del controllo della mobilità degli operai.

Comunque essere inseriti nella rete lavoro/conflitto di lavoro costituiva una indubbia promozione rispetto allo sprofondamento nel mondo delle classi pericolose “messe in scena” dalla “Gazette des Tribunaux” o dal “Journal des Débats”.

Ma il tenore di vita, lo stato, l’immagine di sé degli operai parigini è meno facilmente afferrabile di quanto facciano pensare le inchieste di Villermé, Frégier, Audiganne. Non si vuol dire, per questo, inafferrabile – anzi, l’impegno più appassionante è uscire dalla vaghezza della semplice denuncia moralizzatrice per cogliere il reale profilo di quelle vite – ma meno lineare. Secondo “L’Atelier” del 1840-‘41, per esempio, molti operai eredi di una consolidata tradizione di industria di lusso a elevata qualificazione, come gli ebanisti e i marocchinisti, affermavano di guadagnare più del vero per non sentirsi umiliati. Era la faccia passiva di una ricerca tenace di rispettabilità antagonista che lo stesso “Atelier” rivendicava denunciando, per esempio, la lunga detenzione preventiva – 6 mesi – dei due sarti, P.Whary e Weymans, arrestati per coalizione che abbiamo appena citato.

La stessa ricerca di rispettabilità era probabilmente la causa della difesa delle forme di un tenore di vita artigianale anche da parte di lavoratori che disponevano di redditi spesso assai vicini a quelli dei salariati proletarizzati.

“L’Atelier” inserì un articolo, nel numero del novembre 1842, in cui affermava che un governo attento agli interessi dei lavoratori e che avesse accettato di aiutare gli operai a conquistare l’Organisation du Travail prima avrebbe concesso dei sussidi per risarcire gli operai vittime delle macchine, poi avrebbe permesso loro di farne uso per alleviarne la fatica. Sanrey e Chardenot, falegnami arrestati per reato di coalizione, scrissero al giornale denunciando il violento trattamento che ricevevano gli operai detenuti a causa della ferocia dei sorveglianti [contremaîtres] sempre scelti fra i condannati alle pene più gravi e più lunghe, che si facevano anche corrompere dai committenti. Così si esprimevano, d’altra parte: «[...] non proviamo alcuna simpatia per i truffatori e i ladri che subiscono questi castighi, ma denunciamo con tutte le forze all’opinione pubblica che esso sia stato applicato a noi».[8]

Nell’aprile del 1843 gli ebanisti di Toulouse presentarono una petizione al consiglio comunale della città perché emettesse un dazio d’ingresso gravante sui mobili confezionati. Cercavano così di ostacolare la concorrenza dei detenuti del carcere di Villeneuve-Agen, ai quali i produttori riuscivano a pagare salari più bassi del 40% rispetto a quelli di mercato. Mentre Adolphe Blanqui, individuando giustamente in «ciò che da noi si chiama l’organizzazione del lavoro» la questione del mercato del lavoro, batte in breccia gli Ateliers Nationaux con espressioni analoghe a quelle impiegate dai giornali democratici nella primavera del ’48, rovesciandone il segno da positivo a negativo. A suo parere, del resto, non era opportuno nemmeno abolire il lavoro carcerario, ma solo controllare i prezzi di vendita dei suoi prodotti.

Era invece necessario non consentire che si riproponesse una forma di protezione intollerabile come quella che aveva messo il capitale «a discrezione» del lavoro, quegli Ateliers nationaux che «sono serviti come una piazzaforte sia agli operai che non trovavano lavoro sia a quelli che non volevano lavorare», cioè non volevano lavorare a qualsiasi condizione.

Mentre la letteratura sognava il carcere come luogo di avventura, d’abisso e d’espiazione, i lavoratori organizzati ne vedevano il rapporto indissociabile con la società esterna, le sue relazioni economiche e disciplinari…

Note bibliografiche

Al lettore consiglio di rileggere o leggere una delle numerose edizioni dei Misérables, meglio se in francese dato il carattere fortemente comunicativo delle prosa hugolienneLes fleurs du mal di Baudelaire riflettono le trasformazioni della Paris imperiale, che Hugo segue dall’esilio con la fantasia. Michel Foucault, Surveiller et punir, Gallimard, Paris 1975, trad. it Sorvegliare e punire, Einaudi, Torino 1976 e L'Impossible Prison, Recherches sur le système Pénitentiaire au XIXe siècle, a cura di Michelle Perrot, Seuil, Paris 1980, trad. it. L’impossibile prigione. Michel Foucault discute con gli storici, Rizzoli, Milano 1981. Rimando poi, per i mondi del lavoro degli anni dei Misérables, la mia ricerca citata nell’intervento, L’invenzione della classe operaia. Conflitti di lavoro, organizzazione del lavoro e della società in Francia intorno al 1848, FrancoAngeli, Milano 2002. E’ indispensabile la lettura del classico della demografia storica di Louis Chevalier Classes laborieuses et classes dangereuses à Paris pendant la première moitié du XIXe siècle , 1958, Plon, rééd. Perrin, 2002, trad. it. Classi lavoratrici e classi pericolose. Parigi nella rivoluzione industriale, Laterza, Bari 1976. In generale è utile per comprendere l’intreccio fra società e immaginario nella letteratura francese del XIX secolo lo spoglio della rivista “Romantisme. revue du XIX siècle”.


[1] L’Impossible Prison , sous la direction de Michelle Perrot, Paris, Seuil 1980.

[2] Nella sua opera fondamentale, Classi lavoratrici e classi pericolose. Parigi nella rivoluzione industriale, Laterza, Bari 1976, Chevalier afferma che Hugo (e in misura minore Balzac) descrivono i ceti e i quartieri popolari di Parigi in base a schemi letterari ma la realtà nuova di quel mondo in rapida trasformazione si fa strada nonostante quelle resistenze con la forza dell’evidenza.

[3] Nei Misérables , gli amis de l’ABC sono gli affiliati a una setta repubblicana, che le riassume tutte: ABC doveva alludere foneticamente a “l’abaissé”, il popolo”abbassato” che doveva essere sollevato ed emancipato.

[4] E’ il nome collettivo della banda di malfattori che partecipa all’agguato dei Thénardier a Jean Valjean nella masure Gorbeau. Il termine significava, in argot, “fra notte e giorno”, quando i pericolosi membri della banda si disperdevano dopo una notte di “lavoro” in proprio o per conto di terzi.

[5] Rimando per la ricostruzione di questo periodo di formazione delle classi lavoratrici francesi alla mia ricerca L’invenzione della classe operaia. Conflitti di lavoro, organizzazione del lavoro e della società in Francia intorno al 1848, FrancoAngeli, Milano 2002.

[6] “L’Atelier”, marzo 1841, p. 54.

[7] A.N. F7. 12239. Individus sous surveillance. F7. 12240. Individus sous surveillance.

[8] “L’Atelier”, novembre 1842, pp. 23-24.

Biografia autore

Maria Grazia Meriggi, Università degli Studi di Bergamo

Maria Grazia Meriggi insegna Storia Contemporanea presso l'Università degli Studi di Bergamo. È storica delle culture politiche e dei movimenti sociali europei. Ha conseguito il dottorato di terzo ciclo presso l' Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales. In tale istituzione ha tenuto lezioni presso il seminario di Robert Paris. Collabora con la rete degli Istituti storici della Resistenza e del Movimento di Liberazione in Italia e in particolare con l'Isrec di Bergamo. Fa parte del comitato scientifico della rivista internazionale Histoire & Société. Tra le sue numerose pubblicazioni ricordiamo: La Comune di Parigi e il Movimento rivoluzionario e socialista in Italia (1871-1885), La Pietra, Milano, 1980 (collana “Il filo rosso” diretta da L. Basso); L'invenzione della classe operaia. Conflitti di lavoro, organizzazione del lavoro e della società in Francia intorno al 1848, Franco Angeli, Milano, 2002; Cooperazione mutualismo. Esperienze di integrazione e di conflitto sociale in Europa fra Ottocento e Novecento, Franco Angeli, Milano, 2005.

Pubblicato

15-12-2013

Come citare

Meriggi, M. G. (2013). Il carcere delle classi lavoratrici, il carcere delle classi pericolose. Elephant & Castle, (9). Recuperato da https://elephantandcastle.unibg.it/index.php/eac/article/view/418

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