Resilienza, potenza e delirio. Il caso di Nietzsche
Abstract
Nella letteratura scientifica sul tema della resilienza è molto comune il riferimento alla sentenza nietzschiana sulla scuola di guerra della vita – “Quel che non mi uccide, mi rende più forte”. Attraverso questa referenza nietzschiana le ricerche psicologiche contemporanee legittimano culturalmente le proprie scoperte, disinnescando il senso catastrofico dell’enunciato nietzschiano nel ricontestualizzarlo all’interno di una cornice teorica tutt’altro che omologa. L’interpretazione secondo la quale le scienze psicologiche avrebbero “dimostrato” l’enunciato nietzschiano, dando prova della rilevanza funzionale dei processi resilienti nella vita psichica del soggetto, tende ad occultare un’ipotesi ermeneutica alternativa. Il pensiero nietzschiano della potenza se letto nel contesto della teoria dell’eterno ritorno sembra implicare necessariamente la destituzione del soggetto psichico come transito oltre-umano nel divenire del mondo, escludendo così una concezione della crescita della potenza come risorsa psichica funzionale all’integrazione soggettiva. Lo scopo del presente contributo è quello di interrogare l’affinità non necessariamente elettiva venutasi a stabilire tra la filosofia nietzschiana e i risultati delle recenti ricerche psicologiche, cercando di delineare una visione nietzschiana della resilienza. In primo luogo si proporrà una lettura genealogica della categoria di “resilienza”, mettendo in evidenza le cornici metaforiche e valoriali all’interno delle quali è stata inscritta e definita nel corso della sua recente storia scientifica. In secondo luogo si fornirà un’interpretazione dell’enunciato nietzschiano sulla scuola di guerra della vita a partire dall’evento del delirio, esploso al termine dell’autunno del 1888 e registrato nei celebri “biglietti della follia” (Wahnbriefe). Interrogando il pensiero nietzschiano alla luce del dato biografico, si potranno fornire alcuni elementi per un’interpretazione nietzschiana della resilienza.