Antigone in prison: metatheatrical dynamics and psychological mutations in the prison context
Abstract
1. IntroduzioneFate come vi ho detto: sigillatela sotto le volte del suo sepolcro,
e lasciatela sola,
abbandonata da tutti,
a morire o a sopravvivere, sepolta viva, in quella dimora! […]
sarà privata del diritto di vivere sopra la terra.
(Sofocle, vv. 886-890).
Con queste parole Creonte ordina alle guardie di mettere in atto la punizione che spetta ad Antigone per aver sepolto il corpo di Polinice, reo di aver mosso guerra alla patria. La sentenza equivale a una condanna a morte e deve avvenire all’interno di una prigione che ha già le sembianze di un “sepolcro”. Secondo Creonte la punizione è necessaria perché Antigone ha infranto la legge dello stato. Da parte sua, l’eroina sostiene che la sepoltura di un fratello sia un dovere etico: ha seguito le leggi naturali che reggono la famiglia e i legami di sangue. Tralasciando, in questa sede, le complesse riflessioni filosofiche scaturite da tale confronto (in primis Hegel 1807; 1835), privilegiamo il punto di vista di Antigone in quanto fondamentale per il nostro studio. Perdiamo, in questo modo, l’ambivalenza dell’opposizione di poteri, ma ritroviamo una tragedia più aderente all’interpretazione fornita dai drammaturghi contemporanei e al contesto politico nel quale viene trasposta. La risolutezza di Antigone è divenuta, a più riprese, un simbolo di protesta contro l’oppressione imposta dai vari Creonte che hanno popolato la storia: ricordiamo su tutti l’adattamento di Brecht (1947).
Anche in contesto extraeuropeo, Antigone persegue il suo ideale di libertà e di affrancamento da un potere iniquo. È quanto accade in The Island (1973) di Athol Fugard, John Kani, Winston Ntshona e in Une manière d’Antigone di Patrick Chamoiseau (1975), opera, quest’ultima, messa in scena nel 1984 da Marie-Line Ampigny con il titolo di Le Bourreau d’Antigone. Queste due tragedie nascono in ambiti geografici, politici e culturali totalmente differenti tra loro. Eppure le potremmo accomunare sotto vari aspetti. Innanzitutto per il fatto che entrambi i drammaturghi ambientano l’intera vicenda all’interno di un carcere. Il tema della detenzione diventa pervasivo, totale e fondativo dell’intera pièce. Costituisce lo specchio della società che rappresenta, ma permette anche di riflettere sulle reazioni psicologiche che si innescano tra i prigionieri e sullo sviluppo di dinamiche metateatrali che acquisiscono, di conseguenza, un significato più ampio, addirittura salvifico.
Le riscritture del mito di Antigone nelle letterature anglofone e francofone manifestano atteggiamenti molto diversi nei confronti della struttura carceraria nella quale viene rinchiusa l’eroina. Individuiamo tre tendenze. Alcuni adattamenti si focalizzano sulla scelta di Antigone, sull’opposizione Antigone-Creonte e rappresentano la prigione come elemento corollario alla scena del suo suicidio. A titolo di esempio, si veda la pièce dello scrittore haitiano Morisseau-Leroy (1953). Creonte ordina che Antigone sia rinchiusa in un cachot, una segreta, ma l’eroina ne esce, subito dopo l’atto suicida, sotto forma di arcobaleno e accede ad una sorta di Eden in cui trova pace e felicità insieme ad Emone. Vi è soltanto un'allusione al carcere poiché l’attenzione si concentra principalmente su quanto accade dopo gli eventi luttuosi. Una seconda tendenza vede gli autori trasformare il contesto carcerario in altro. Ad esempio, il drammaturgo congolese Sylvain Bemba (1988) sceglie come luogo di detenzione un aereo: Antigone è murata viva in un velivolo che subisce un incidente e si inabissa nel mare. Vi è poi una terza categoria di scrittori che sceglie, appunto, di ambientare l’intera vicenda all’interno di un carcere.
2. Descrizione dell’universo carcerario e contesto storicoCome già anticipato, le tragedie di cui ci occupiamo nel presente studio nascono in luoghi geografici differenti e fanno riferimento a diverse congiunture storico-politiche.
Athol Fugard scrive The Island nel 1973 e la rappresenta per la prima volta con il titolo di Die Hodoshe Span. All’epoca in Sudafrica vigeva l’apartheid e, come spiega Alberth Wertheim (2000: 88), il titolo The Island avrebbe subito richiamato alla mente il carcere di Robben Island (luogo di detenzione dei prigionieri politici) e le autorità non ne avrebbero consentito la rappresentazione [Fig. 1]. Il termine Hodoshe, invece, passa inosservato, trattandosi della parola xhosa che designa gli insetti verdi che si nutrono di carogne (Welder 1993: 421). Il vocabolo, tuttavia, conserva un significato legato all’ambiente carcerario, in quanto era utilizzato come soprannome dei secondini. L’espressione The Hodoshe Span equivale letteralmente al gruppo di lavoro delle guardie: i carcerati.
I protagonisti della vicenda sono due prigionieri di colore, detenuti a Robben Island: John è accusato di appartenere a un’organizzazione proibita, mentre Winston è condannato all’ergastolo per aver bruciato il suo passaporto di fronte alla polizia. Gli unici personaggi sulla scena sono loro, le guardie vengono soltanto menzionate dai prigionieri o appaiono allo spettatore come presenze esterne che dettano ordini ai quali i detenuti devono obbedire. Nella scena iniziale John e Winston sono intenti a muovere della sabbia: a turno, l’uno deve riempire una carriola e svuotarla nello stesso punto in cui l’altro sta scavando. Accanto alla durezza [Fig. 2, Fig. 3] e all’assurdità del lavoro (Fugard 2000: 144), che richiamano volutamente Il mito di Sisifo di Albert Camus (1942), l’attività è ritmata dagli ordini delle guardie, un ronzio incessante che non permette nemmeno una pausa. La presenza dell’autorità è tangibile anche attraverso il rumore dei cancelli e il suono delle sirene che scandiscono le diverse attività della giornata: il lavoro, il ritorno in cella e soprattutto la temuta corsa a tre gambe a cui i detenuti sono sottoposti dopo essere stati legati a coppie e durante la quale vengono percossi se non mantengono il ritmo o se inciampano.
Oltre alla routine quotidiana della detenzione, per rendere il riferimento all’universo carcerario ancor più evidente, i detenuti indossano la divisa in uso proprio a Robben Island: pantaloni corti e camicia color kaki [Fig. 4]. Nelson Mandela, che ha passato a Robben Island ben venti dei suoi ventisette anni di prigionia, descrive il primo approccio con la tenuta del penitenziario in questi termini:
Una delle umiliazioni rituali della vita carceraria è che quando si viene trasferiti da una prigione all’altra, la prima cosa a cui si è sottoposti è il cambio della vecchia uniforme con quella del nuovo carcere. Quando ci fummo spogliati, ci gettarono le semplici divise kaki di Robben Island […] un paio di calzoni corti, una maglietta leggera e una giubba di tela. […] Che a noi toccassero i pantaloni corti mirava a ricordarci che eravamo “ragazzi”. (Mandela 2013: 365)
Foucault (1975: 97) sostiene che l’umiliazione e la sofferenza sono considerate due componenti fondamentali del processo punitivo e, per essere più efficaci, devono acquisire lo status di rappresentazione mentale. Per conseguire una personale vittoria contro il regime, i detenuti sono chiamati a opporre resistenza a tali meccanismi fisici e psicologici. Il successo è possibile solo se trovano la forza per continuare a considerarsi esseri umani (McDonald 2006: 31-2). Nel caso di John e Winston la resistenza passa attraverso una messa in scena teatrale [1] che ha come protagonista Antigone e si avvale soltanto di due personaggi. La scelta degli attori non è casuale: si tratta di Kani e Ntshona, che, oltre ad avere interpretato i protagonisti della pièce e collaborato con Fugard alla stesura del testo, fanno parte dei Serpent Players. Si tratta di un gruppo di attori di colore provenienti dalla township di New Brighton, un quartiere di Port-Elizabeth, che nel 1963 si mette al servizio di Fugard. Quest’ultimo organizza vari spettacoli con la sua compagnia e si dedica anche alla messa in scena di township plays[2] basate su opere classiche, quali appunto l’Antigone di Sofocle. Siamo nel 1964 e Mandela è già stato arrestato. La rappresentazione è vista con sospetto, così come tutto il lavoro dei Serpent Players. Nel marzo dell’anno successivo, le autorità provano a fermare la compagnia con l’arresto e la conseguente detenzione a Robben Island di alcuni attori, tra cui Sypho Mguqulwa[3] che avrebbe dovuto recitare il ruolo di Emone (Fugard 2002: 133). Nonostante l’atto di forza, l’attività del gruppo prosegue e nel 1965 è proprio John Kani ad interpretare Emone. Le imprese dell’eroina greca diventano un simbolo della lotta di resistenza dei detenuti di Robben Island: anche Mandela riferisce di aver recitato nel ruolo di Creonte durante uno spettacolo organizzato in carcere (Mandela 2013: 427). L’atto di Fugard, Kani e Ntshona è comunque coraggioso perché all’epoca vigeva il divieto assoluto di parlare delle condizioni dei carcerati di Robben Island. È per questo motivo che la prima rappresentazione si è avvalsa di un titolo meno esplicito. Di fatto, l’operazione di Fugard si presenta come l’azione di un liberal, ossia uno dei pochi bianchi sudafricani che, durante l’apartheid, pur non creando nessun partito politico, assumono un atteggiamento di protesta contro un sistema a loro avviso ingiusto (Welder 1985: 15). Il teatro di Fugard costituisce un modo per denunciare la qualità della vita in Sudafrica (Walder 1985: 18) e instillare una riflessione profonda nelle coscienze dei suoi concittadini.
Patrick Chamoiseau, dal canto suo, ambienta Une Manière d’Antigone nel 1971 in Martinica. Gli anni sessanta e settanta, per le Antille, sono un periodo turbolento: il popolo manifesta contro la politica assimilazionista della Francia e gli scontri di piazza con le forze armate sono frequenti. Gli episodi di maggiore violenza si verificano a Fort-de-France (Martinica) nel 1959 e a Pointe-à-Pitre (Guadalupa) nel 1967. Lo spunto per la pièce di Chamoiseau è fornito da un evento accaduto nel 1971: in occasione di una visita del ministro dei dipartimenti dell’epoca, Pierre Messmer, ha luogo la protesta di un gruppo di studenti. Le forze dell’ordine e l’esercito fermano i manifestanti e, nello scontro, un giovane studente di diciassette anni, Gérard Nouvet, viene ucciso dalla polizia. La finzione di Chamoiseau vuole che il prefetto Creonte ordini di non rendere onore al cadavere e una ragazza, soprannominata Antigone dai compagni, sfidi il comando e venga incarcerata senza processo. Lo spettatore è proiettato direttamente nel carcere di Fort-de-France. Antigone è appena stata arrestata e gli eventi accaduti in precedenza all’esterno del penitenziario vengono raccontati retrospettivamente. Come nel caso di Fugard, i protagonisti sono ridotti numericamente: il confronto avviene tra la fanciulla, determinata e risoluta nella sua azione di resistenza, e la guardia, un uomo esuberante e logorroico, a cui è affidato il compito di sorvegliarla e di ucciderla in concomitanza con il primo giorno del carnevale. Il secondino è, dunque, chiamato ad eseguire una condanna a morte che deve tuttavia rimanere defilata. Le autorità non vogliono inasprire ulteriormente la reazione dei manifestanti e, a loro avviso, l’omicidio perpetrato in occasione del carnevale passerebbe inosservato al popolo impegnato nei festeggiamenti (Ampigny 1984: 37).
La pièce di Chamoiseau, che rimane tuttora inedita, è stata messa in scena da Marie-Line Ampigny nel 1984 con il titolo Le Bourreau d’Antigone, avvalendosi della compagnia dell’AIR (Artistes Immigrés Réunis), fondata insieme a Luc Saint-Éloy nel 1983 [4]. Sarà proprio quest’ultimo ad interpretare il ruolo del carnefice in occasione della produzione teatrale [Fig. 5]. Come si vede dall’immagine, l’universo carcerario è reso evidente dalla scritta che compare sul pannello e dalla presenza della guardia. L’insegna è necessaria perché la prigione di Antigone è, in realtà, uno scantinato individuato appositamente per isolarla da altre presenze umane e attribuirle la dimensione di morta vivente di cui parla Sofocle. Bérard (2008: 45) nota che il carceriere è in uniforme, ha i capelli corti ed è ascritto alla categoria delle autorità grazie a due simboli: la pistola e il fischietto. Inoltre, per rendere maggiormente visibile l’opposizione tra i due personaggi, Antigone è posta volutamente in ombra dietro ad alte sbarre di acciaio al centro del palco [Fig. 6]. La ragazza è rinchiusa in uno spazio angusto, a differenza del secondino che può muoversi liberamente. In un’intervista a me rilasciata, Ampigny spiega di aver fornito alla guardia una sedia in legno. I materiali utilizzati non sono casuali: si tratta di contrapporre a livello visivo, sullo spazio scenico, il calore associato all’esuberanza della guardia e al mondo esterno alla freddezza del carcere e dell’atteggiamento inizialmente diffidente di Antigone.
Se la prigione di per sé evoca immagini di chiusura e di repressione, tali sensazioni si definiscono nella pièce di Chamoiseau proprio in opposizione all’ambiente esterno. Nei cinque giorni di forzata convivenza, il boia allude ripetutamente alla realtà delle Antille, ai colori, ai sapori, ai profumi, alla gioia che scaturisce dalla biguine – la musica tradizionale – e al carnevale, evento ormai imminente (Bérard 2007: 43).
Un’altra caratteristica che emerge in modo preponderante è la privazione della libertà di Antigone intesa come brutale distacco dal fluire degli eventi esterni che la vedono come protagonista. Nel caso di Une manière d’Antigone, l’unico personaggio in grado di infrangere la barriera posta dal carcere è la guardia. I suoi racconti non sono del tutto veritieri e includono una certa dose di finzione, ma assicurano ad Antigone la possibilità di avere uno sguardo sul mondo che le è precluso e di conoscere anche le decisioni non ufficiali delle autorità. Il carceriere, quindi, apre una faglia nelle mura della prigione e diventa per l’eroina l’occhio con cui vedere la realtà esterna.
Il popolo, al contrario, perde il contatto con Antigone subito dopo il suo arresto e non immagina che il governo abbia pensato di punirla con un’esecuzione in piena regola. Per l’opinione pubblica, l’eroina è entrata in quella dimensione, a cui Foucault (1994) dà il nome di eterotopia, scollata dalla realtà, che diviene accessibile solo attraverso i discorsi ufficiali (peraltro non veritieri) del prefetto.
Bérart (2009: 59) sostiene che la rappresentazione della prigione non è altro che una metafora del potere francese in Martinica, della politica del “dipartimentalismo” che obbliga il popolo alla sottomissione. La detenzione diventa sinonimo dell’oppressione che il governo centrale esercita sulle Antille francesi, una forma di dominio che schiaccia le tradizioni locali e le rende invisibili al di fuori del loro contesto geografico.
La riflessione sull’anonimato della vita in carcere è un discorso particolarmente sentito da Chamoiseau. Nel 2007 è stato pubblicato un volume, La Prison vue de l’intérieur, in cui lo scrittore è intervenuto in qualità di responsabile del servizio di reinserimento del detenuto nella società. Nella prefazione afferma che la prigione è invisibile perché impenetrabile agli occhi di chi la vede dall’esterno come un edificio, ma anche a quanti vi entrano per lavoro poiché ne hanno una visione parziale, termine da intendersi nel duplice significato di parcellizzata e partigiana (Chamoiseau 2007a: 7).
Sebbene nasca trent’anni prima come tentativo di resistenza e di lotta contro un ordine stabilito, la pièce dello scrittore martinicano articola già una riflessione sull’invisibilità del carcere e ipotizza un modo per rompere la cortina di anonimato che lo avvolge: rappresentarlo su una scena e descriverne il rapporto tra detenuto e guardia.
Con Une manière d’Antigone, Chamoiseau si propone anche di infrangere l’oblio. Ricordare Gérard Nouvet significa riportare alla memoria collettiva tutti coloro che sono morti combattendo per la Martinica. La pièce è un omaggio e un modo per rendere onore ai resistenti dimenticati (Bérard 2009: 67).
3. La metateatralità come forma di resistenza e “evasione” dalle mura del carcere.In The Island, la messa in scena di Antigone da parte dei detenuti ha una funzione che è essenzialmente legata ad un tentativo di resistenza. Welder afferma che l’opera appartiene a quel filone che si dipana dal mito sofocleo, secondo il quale sfidare le regole significa agire in nome della coscienza e della dignità umana: “La pièce suggerisce che gli uomini possono sopravvivere alle condizioni più intollerabili solo se sono in grado di scoprire e articolare un significato per le loro sofferenze – un significato che qui è offerto da Antigone” (Welder 1985: 76, traduzione mia). Un’affermazione che riassume bene la portata della rappresentazione metateatrale di cui John e Winston sono protagonisti. All’inizio ripassare le battute della pièce pare quasi un passatempo, una delle tante strategie impiegate dai due detenuti per attribuire una funzione (e una scansione) al tempo trascorso in cella. Alla fine della prima scena, infatti, mimano una telefonata alla famiglia: inventare dettagli che non possono conoscere e fingere di ascoltare voci a loro care è un modo per sopportare la segregazione e la solitudine imposta a Robben Island [5] [Fig. 7].
Un’altra strategia adottata consiste nel raccontare eventi in modo tale da trasportare il compagno in luoghi preclusi dalla detenzione. Ad esempio, dallo scambio di battute tra i due personaggi veniamo a sapere che la sera precedente Winston ha “condotto” John al cinema e gli ha “mostrato” un film western. Questi momenti di comicità rivelano un lato amaro: raccontare la trama di un film, mimare una scena quotidiana della realtà esterna, proiettare sullo schermo della mente immagini di libertà sono, come afferma John, un atto di “responsabilità” (Fugard 2000: 204). Nel caso della rappresentazione di Antigone, l’impegno preso è maggiore perché non riguarda più solo due persone, ma tutta la comunità dei detenuti e delle guardie. In un primo momento, Winston è reticente. Spetta a lui il ruolo di Antigone e assumerne fisicamente le sembianze: John ha pensato al suo travestimento e si è procurato una parrucca, due barattoli di latta che fungeranno da seno posticcio e una collana [Fig. 8]. Le sembianze femminili, tuttavia, non convincono Winston che rifiuta di suscitare ilarità e di diventare lo zimbello dei compagni. John fa leva proprio su quelle responsabilità evocate in precedenza e spiega che la risata è un moto spontaneo, ma ha un termine: “Nessuno ride per sempre! Verrà un momento in cui smetteranno di ridere e verrà il momento in cui la nostra Antigone li colpirà con le sue parole” (Fugard 2000: 209, traduzione mia). Winston accetta il suo ruolo solo quando capisce che la storia dell’eroina racconta una parte della sua vita. Durante lo spettacolo offerto ai detenuti e alle guardie, Antigone si proclama colpevole nella consapevolezza che il suo gesto risponde ad una legge superiore. E quando John/Creonte ordina: “Prendetela e portatela direttamente nell’isola” (Fugard 2000: 227, traduzione mia), il processo di identificazione tra i personaggi del mito classico e i prigionieri è giunto al suo culmine, al living moment, ossia a quella fase del percorso in cui la storia esterna (offerta dalle circostanze delle vite di coloro che sono coinvolti nella vicenda) coincide con la sua dinamica interna (Welder 1985: 5). Non resta, dunque, che togliere le maschere e osservare il pubblico in qualità di John e Winston e non più come Creonte e Antigone (Easterling 1997: 283) [Fig. 9].
In quest’ottica, si stabilisce un rovesciamento della situazione: nel momento in cui Winston torna se stesso, ritrova anche la fiducia nelle motivazioni che lo hanno condotto in carcere (motivazioni che aveva perso quando aveva saputo della liberazione di John). Come sostiene Brink (1993: 447), il teatro diventa per i personaggi un modo per sconfiggere l’individualismo, la chiusura, la negazione dell’identità che vengono generati dal sistema carcerario. La sopravvivenza di cui si parla è soprattutto psicologica e passa attraverso la pratica metateatrale, in quanto assicura uno sguardo su quel mondo esterno che il carcere preclude.
La pièce di Chamoiseau non mette in scena una rappresentazione metateatrale della tragedia di Sofocle, ma assimila i personaggi agli eroi classici. Di Antigone sappiamo che è una câpresse, ossia una ragazza meticcia per due terzi nera e per un terzo bianca (Bérard 2008: 44). Un dettaglio che richiama l’identità composita della popolazione della Martinica, nata dall’incontro tra colonizzatori europei e schiavi africani, a cui si aggiungono una molteplicità di altri influssi dovuti alle successive ondate migratorie. L’epiteto di Antigone viene attribuito alla giovane dai compagni, ma di lei non conosciamo nemmeno il vero nome. Sappiamo che è una contadina e che ha infranto l’ordine impostole dal prefetto Creonte, il delegato del potere francese in Martinica. E quest’ultimo ci viene presentato soltanto attraverso l’interpretazione offerta dalla guardia. L’opposizione tra la ragazza e il prefetto si realizza attraverso una scena mimata all’interno del carcere in cui Antigone assume il ruolo di se stessa nel momento del suo arresto e del confronto con Creonte. L’eroina accusa il prefetto di essere uno straniero e di non avere nulla in comune con la tradizione e la cultura delle Antille. Bérard (2009: 60) sostiene, fuor di metafora, che Chamoiseau critichi l’atteggiamento degli amministratori francesi e la loro ignoranza a proposito della realtà antillana e della cultura creola.
Le accuse di Chamoiseau non finiscono qui e passano ancora una volta attraverso gli elementi metateatrali. È sempre la guardia che si fa carico di tale attività. Mescolando realtà e finzione, il boia mette al corrente la ragazza di quanto sta accadendo fuori: scimmiottando il linguaggio dei media e attraverso una serie di giochi di ruolo, ripropone i discorsi ufficiali e ufficiosi che vengono pronunciati fuori dalla prigione. Antigone scopre, in questo modo, che il partito comunista ha preso le sue difese e che Creonte ha comunicato alle telecamere il suo impegno affinché la colpevole sia giudicata in Francia con regolare processo. D’altra parte, il secondino ci informa anche sulle reali intenzioni di Creonte: la ragazza non avrà la possibilità di difendersi in giudizio, ma le verrà data la morte nel carcere di Fort-de-France.
Il personaggio del prefetto, dunque, assume un ruolo fondamentale nella vicenda. Pur non essendo presente sulla scena, è necessario rappresentarlo, dargli una corporeità e una voce. Non è un caso che sia la guardia ad interpretarne il ruolo: anche il carceriere, seppure ad un diverso livello è, come il prefetto, un rappresentante dell’autorità centrale francese. Una distinzione, tuttavia, è necessaria.
Secondo Bérard (2009: 61), l’interpretazione del carnefice rivela la vera natura di Creonte: un essere ipocrita che nasconde le reali intenzioni attraverso una facciata di benevolenza. Se poi consideriamo che i suoi discorsi si concretizzano con una voce altrui, che aggiunge deliberatamente elementi di finzione alla realtà dei fatti, dobbiamo riconoscere che il delegato ne esce profondamente ridicolizzato ed è paragonato ad una marionetta. Nelle intenzioni di Chamoiseau, la sua figura è un’esemplificazione del potere politico francese in Martinica, ossia di un’autorità che viene screditata perché artificiale e falsa proprio come uno spettacolo teatrale (Bérard 2008: 47).
Un’interpretazione della metafora scenica che è opposta a quella raggiunta da Fugard. Per il drammaturgo sudafricano, il teatro deve essere un’immagine della vita reale e i protagonisti, John e Winston, che non a caso mantengono i nomi degli attori e coautori Kani e Ntshona, aggiungono particolari della loro biografia. Inoltre gli attori riconoscono l’immediatezza della tragedia greca quando comprendono che la prigione di Antigone è una metafora della situazione del Sudafrica. Robben Island è un “quadro sinottico” di tutte le prigioni sudafricane e della condizione di apartheid a cui è sottoposto il paese (Wertheim 2000: 98-9). Uscire dal carcere, quindi, equivale a entrare in un altro penitenziario: quello della vita reale.
L’interpretazione metateatrale della guardia di Chamoiseau permette di approdare anche ad un’altra duplice riflessione. Bérard (2008: 45) vede nel carceriere una figura ambivalente poiché, pur essendo un delegato del governo francese, è anche un uomo profondamente radicato nella tradizione e nella cultura popolare delle Antille. La sua duplice natura è svelata da quel fischietto a cui alludevamo prima: un oggetto usato sia per richiamare all’ordine o impartire comandi, sia come strumento di goliardia durante le sfilate del carnevale. Quest’ultimo aspetto si rivela attraverso l’esuberanza e la vivacità con le quali il personaggio cattura lo spettatore e offre scene di comicità immediata. Oltre alle numerose allusioni alla cultura popolare, la guardia si presta a “giochi di ruolo”, introduce indovinelli e canzoni in creolo. In tal modo, richiama anche il conteur, il maître de la parole (Bérard 2009: 61), ossia quella particolare figura della tradizione che si erge a intrattenitore, memorialista e depositario della cultura popolare.
4. Mutazioni psicologiche nel contesto carcerario.In The Island, possiamo parlare di una mutazione psicologica che avviene in relazione al personaggio di Winston. Dopo l’iniziale rifiuto di recitare il ruolo di Antigone, si innesca un processo di agnizione tra il detenuto e l’eroina classica. Tale meccanismo è reso possibile anche da un evento che si produce nella relazione interpersonale tra Winston e John. Il primo, condannato all’ergastolo, scopre che il compagno ha ricevuto uno sconto della pena e tra tre mesi otterrà nuovamente la libertà. Dopo un’iniziale manifestazione di felicità, l’ergastolano cambia atteggiamento quando, durante la notte, sente John contare i giorni che lo separano dalla libertà e dagli affetti familiari. In quel momento Winston scatena la sua invidia e afferma: “Tu puzzi. […] La tua libertà puzza, John. E mi rende folle” (Fugard 2000: 220, traduzione mia). Una reazione che deriva dalla consapevolezza che l’amicizia e lo spirito di solidarietà che si era stabilito tra i due verrà meno con la liberazione di John. Non è quindi il carcere ad infondere la pazzia, bensì la prospettiva concreta della libertà altrui. Lo sfogo di Winston, tuttavia, si sovrappone metaforicamente alla risata del pubblico che vede il travestimento da donna: una volta assopita la prima reazione, entra in azione Antigone e il suo discorso instilla un cambiamento, o almeno una riflessione, in tutti coloro che lo ascoltano. Winston, quindi, assume pienamente il suo ruolo dicendo: “Vado incontro alla mia morte vivente perché ho onorato le cose alle quali appartiene l’onore” (Fugard 2000: 227, traduzione mia). Se dal canto suo Winston pare avere interiorizzato il messaggio di resistenza di Antigone, le guardie continuano la loro opera e la pièce si chiude con la stessa immagine dei detenuti legati a coppie e costretti ad una corsa funesta.
Il mutamento della psicologia dei personaggi è molto più forte nella tragedia di Chamoiseau e coinvolge la guardia. Il confronto tra loro dura cinque giorni, due dei quali Antigone li passa in assoluto silenzio. È sprezzante e diffidente verso quest’uomo estroverso, frivolo e volgare. Tuttavia, a poco a poco, è intrigata dalla logorrea del carnefice, coglie quegli interstizi della sua personalità che le lasciano un certo margine d’azione. Un’interazione che le permette di modificare, pur non vincendole, le linee della personalità dell’uomo e di trovare un senso alla sua morte. L’Antigone di Chamoiseau è caparbia, determinata, pronta a lottare per un ideale assoluto, ma anche fragile. Sebbene accetti la morte come unica soluzione, la teme e afferma: “Ho paura, ho paura da molto tempo, dall’istante in cui ho saputo che dovevo essere Antigone” (Chamoiseau 1975: 26-7, traduzione mia). L’eroina martinicana perde una parte di tragicità rispetto al personaggio classico, ma diventa più umana. Non abbandona mai lo scopo ultimo della sua missione ed è proprio la sua determinazione ad agire a livello inconscio sulla personalità del carnefice. Come riporta Bérard (2009: 61, traduzione mia), lo stesso Chamoiseau afferma che, durante la lettura della tragedia di Sofocle, gli “era sembrato strano che quella guardia potesse affrontare la feroce determinazione di Antigone senza subirne lui stesso, in un modo o in un altro, un mutamento”. Ed effettivamente il carnefice, ossia il subalterno pronto ad ogni concessione e ad ubbidire agli ordini imposti dal potere con spirito servizievole e senza riflettere sulle conseguenze, mostra una crescente compassione e una maggiore sensibilità. Poco alla volta inizia a condividere le sofferenze della ragazza, a porsi domande sulla sua detenzione, a provare un sentimento di amicizia nei suoi confronti e a proporle la fuga. Bérard (2009: 61) spiega questo cambiamento attraverso il concetto, mutuato da Génette (1982), della “transvalorizzazione”: da personaggio inizialmente privo di valore, la guardia subisce un processo di progressiva contro-valorizzazione e si dota di elevate qualità psicologiche. Il carnefice è consapevole di tale mutamento, al punto che, di fronte al cadavere di Antigone, rivela: “La guardia non sarà mai più la stessa […] qualcosa di molto intimo in lei si è infranto. La guardia è cambiata! Quindi, ormai lo sappiamo, tutto è possibile” (Chamoiseau 1975: 47, traduzione mia).
Chamoiseau è celebre per i suoi romanzi, non per le tragedie. La produzione drammatica è da ascriversi ad un periodo giovanile e, a suo dire, mostra una realtà manichea adatta alla società degli anni Sessanta e Settanta, ma che ora non rispecchia più la complessità del mondo (Chamoiseau, 2007b: 166). Considera i suoi testi teatrali come l’opera di un ribelle, frutto dell’azione di colui che si oppone a ciò che lo opprime, ma ne resta dipendente. Ora, al contrario, ha assunto il ruolo di un guerriero: sceglie un campo di battaglia e lo modifica (Chamoiseau, 2007: 168). La sua Antigone, dunque, è una ribelle. Convinta dei suoi ideali, lei, “figlia delle Antille”, come l’ha definita Marie-Line Ampigny (1984: 37), di quelle Antille che sanno soffrire e sperare, è riuscita a generare una riflessione nella mente della guardia, figlio delle “isole”, esuberante, conteur della tradizione popolare, ma anche rappresentazione stereotipica dell’uomo antillano (Saint-Éloy 2003).
Il mutamento psicologico subito dalla guardia di fronte alla risolutezza di Antigone ricorda il rapporto intercorso tra Nelson Mandela e James Gregory, una delle guardie incaricate della sua sorveglianza presso il carcere di Robben Island prima e di Pollsmoor poi. Nel volume [6] Il colore della libertà. Nelson Mandela da nemico a fratello (Gregory 1996), da cui Billy August ha tratto l’omonimo film (2007), Gregory è colpito dal carisma di Mandela e dalla gentilezza dimostrata nei confronti del carceriere. Il contatto con il detenuto lo spinge, proprio come era accaduto al boia di Le Bourreau d’Antigone, a riflettere, a “voler conoscere qualcosa di più su di lui” (Gregory 1996: 106). La guardia parla addirittura di un processo di “conversione” (Gregory 1996: 125) che comincia lentamente e che nel testo è segnalata dalla sostituzione del nome Nelson a quello di Mandela. Come indica il titolo dell’opera, il mutamento avviene a livello di percezione: il prigioniero, in un primo momento considerato nemico, poco alla volta, diventa un fratello. Il cambiamento è reso possibile dalla spinta alla riflessione che induce il secondino a ripensare alla sua infanzia e ai momenti spensierati che ha trascorso con l’amico Bafana. Nel film, la “conversione” di Gregory si materializza attraverso la scena della lotta con i bastoni, un rituale della cultura xhosa. Il confronto tra Gregory e Mandela [Fig. 10] ricorda alla guardia l’infanzia passata a contatto con Bafana [Fig. 11] e induce lo spettatore a pensare che il motivo per cui il carceriere percepisce il detenuto in modo diverso è legato alla condivisione di una cultura comune. Si genera una comprensione che avviene indipendentemente dal ruolo occupato nella società e che induce ad un rovesciamento di posizioni: Mandela, che persegue ostinatamente i suoi ideali, rimane libero anche in carcere; Gregory che esegue compiti senza riflettere sulle conseguenze, scopre di essere rinchiuso in una prigione metaforica, dalla quale esce durante alcuni momenti di "epifania" in cui ritrova lo spirito dell’infanzia [Fig. 12].
Mandela, che ha trascorso ventisette anni della sua vita in carcere per perseguire i suoi ideali, esemplifica l’immagine del detenuto e può essere accostato alla figura di Antigone. Le eroine di Fugard e di Chamoiseau, tuttavia, subiscono un destino differente, ma sono in grado di testimoniare che la tragedia classica ha la possibilità di generare un nuovo significato anche in luoghi lontani rispetto a quelli in cui è nata. Come spiega Wetmore (2002: 3) a proposito degli adattamenti nel continente africano (ma la riflessione è valida anche per l’ambito caraibico), il mito è cross-cultural e cross-temporal. Sono queste le categorie da considerare per comprendere il processo di “de-territorializzazione” e “ri-territorializzazione” (Deleuze, Guattari 1980) delle riscritture di un classico e per considerare il nuovo significato che il mito assume. Il mito, infatti, usa un materiale di oltre due migliaia e mezzo di anni per commentare situazioni politiche e sociali all’interno di una cultura e di un periodo storico totalmente differenti da quelli di origine (Wetmore 2002: 3). Come dice Steiner (1984: 330), Antigone è un mito inesauribile perché iscritto nell’evoluzione del nostro linguaggio. Aggiungiamo che Antigone è capace di aprirsi ad un dialogo transculturale che mette al centro la riappropriazione di un’identità locale libera dallo sguardo alienante del colonizzatore. L’intento dei drammaturghi non è quello di imitare la tradizione classica, bensì quello di negoziare dei significati per generare un nuovo prodotto ibrido e originale.
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[1] Ai prigionieri è permesso di organizzare un concert, uno spettacolo in cui recitano, cantano, danzano di fronte ad un pubblico formato dalle guardie e dai compagni non impegnati nell’attività artistica.
[2] I township plays sono spettacoli che mescolano teatro popolare, canti, danze, satira e jazz (Welder 1985: 8). Nel Sudafrica dell'apartheid con township si designavano quelle zone urbane limitrofe ad aree metropolitane nelle quali abitavano esclusivamente cittadini non-bianchi ( neri e indiani). New Brighton era una delle township attorno alla città di Port-Elizabeth.
[3] Nel presente studio ci si attiene alla ricostruzione degli eventi operata dallo stesso Fugard in un articolo del 2002. Esiste, tuttavia, una seconda versione dell’episodio che è sostenuta da Welder (1985: 80) e ripresa da McDonald (2006: 22) e Goff, Simpson (2007: 277). In base a tale racconto, l’attore che avrebbe dovuto interpretare il ruolo di Emone sarebbe Norman Ntshina, le cui vicende biografiche, secondo Fugard, costituiscono lo spunto per un’altra pièce: The Coat. Il drammaturgo sudafricano racconta, inoltre, che l’intera trama di The Island è stata elaborata a partire dalle informazioni, in parte censurate, contenute in una lettera che Sipho Mguqulwa gli ha inviato dal carcere.
[4] La compagnia Théatre de l’A.I.R viene fondata da Ampigny e Saint-Éloy con lo scopo di valorizzare la cultura delle Antille e farla conoscere al pubblico francese. Mettere in scena la storia, l’ambiente e le tradizioni caraibiche è un modo per portare uno sguardo particolare sulla cultura dell’altro (Saint-Éloy 2003). La scelta di rappresentare Antigone, nella versione di Chamoiseau, permette di utilizzare un’opera universale per parlare di un contesto specifico, quello della Martinica. Cogliamo l’occasione per ringraziare Luc Saint-Éloy, Marie-Line Ampigny e Stéphanie Bérard per la disponibilità e il materiale fornitoci.
[5] I detenuti potevano ricevere la visita di un familiare ogni sei mesi e due lettere all’anno che, tuttavia, erano sottoposte ad un severo controllo e alla censura (Mandela 2003: 325).
[6] Ben consapevoli della polemica scatenata da Anthony Sampson (1999), biografo ufficiale di Mandela, che considera l’operazione di James Gregory una pura trovata commerciale e altrettanto consci del fatto che l’ex-presidente sudafricano citi la guardia solo in tre occasioni nella sua autobiografia, consideriamo in questa sede il testo e la trasposizione cinematografica de Il colore della libertà come un’opera di finzione che affronta le medesime tematiche e che, attraverso la figura di Mandela, crea un ulteriore anello di congiunzione tra i drammi esaminati. Per completezza di informazione, aggiungiamo che in Lungo cammino verso la libertà, Mandela usa parole di plauso a proposito di Gregory: “A Pollsmoor conobbi meglio Gregory e lo trovai piacevolmente diverso dagli altri guardiani. Era una persona fine e pacata, che trattava Winnie con cortesia, e invece di gridare “Tempo scaduto!”, le diceva: “Signora Mandela, ha ancora 5 minuti di tempo” (Mandela 2003: 479) Inoltre nel capitolo dedicato alla cronaca del suo ultimo giorno di prigionia, afferma: "Venne anche l’agente James Gregory, che abbracciai calorosamente. […] non avevamo mai parlato di politica; il nostro era un legame che non si basava sulla parola, ma la sua tranquilla presenza mi sarebbe mancata" (Mandela 2003: 522).
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