“[We] would prefer not to”. Metodologie e itinerari critici di Celati e Pavese traduttori di Melville
Parole chiave:
Gianni Celati, Cesare Pavese, Herman Melville, Bartleby lo scrivano, poetiche traduttiveAbstract
Il presente intervento si propone un’indagine comparata di Gianni Celati e Cesare Pavese nella loro attività di “traduttori melvilliani”, a partire dallo studio di taluni corpora epistolari e privati pavesiani e celatiani, i quali ben ci testimoniano talune cruciali teorie e metodologie traduttive concepite nel tempo dai nostri due autori. Se in Pavese la traduzione del 1932 del romanzo Moby Dick (1851) assume connotati fortemente antifascisti, con una consapevolezza altrettanto “non neutrale” Celati si “riappropria” – a metà anni ’80 – dell’atipico racconto melvilliano Bartleby, the Scrivener (1853) per la sua capacità di affermare un dissenso netto ma non violento nei confronti della società del tempo. La traduzione dei testi melvilliani da parte dei nostri due autori fa inoltre emergere talune delle questioni traduttologiche maggiormente nevralgiche e dibattute in decenni di studi sulla traduzione, a partire da taluni insolubili binomi oppositivi quali “fedeltà/infedeltà” e “traduzione/riscrittura”, mostrandone peraltro tutta l’attuale inadeguatezza e “sterilità”. I casi di Pavese e Celati traduttori di Melville ci restituiscono una metodologia traduttiva che rifugge orgogliosamente da quell’“invisibilità del traduttore” teorizzata e condannata da Lawrence Venuti, avanzando semmai un’idea di traduzione intesa quale autentica “seconda creazione”, attraverso talvolta autentiche deformazioni del testo fonte, che non possono non rimandare alle “tendenze deformanti” teorizzate da Antoine Berman.
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