L'évasion en tant que forme symbolique. Trois points de vue différents sur les voies d'évacuation
Résumé
Qualsiasi cosa io tenti e intraprenda,
non della morte attigua, o di una incerta e
accresciuta libertà che vi sbocchi, mi sento
solidale, ma delle messi e degli specchi
del nostro mondo bruciante.
(Char 2010: 49)
Ho voluto pensare la prigione come luogo di passaggio, come uno spazio e un tempo serrati in cui radunare tutte le energie psichiche per la fuga. Che quest’ultima venga a compiersi sotto forma di una sublimata liberazione metafisica o di un’esecuzione che ponga termine alle sofferenze del carcere, ciò che conta, nei tre esempi presi in considerazione, è che la prigione assume il ruolo di potente incubatrice di speranza, istinto di sopravvivenza e pensiero, in cui dormiveglia, inquietudine, sogno e visione giocano un ruolo fondamentale.
La prima parte dell’articolo affronta l’episodio della Liberazione di San Pietro, descritta negli Atti degli Apostoli (12, 5-11) e il racconto “crudele” di Villiers de l’Isle-Adam La tortura della speranza, considerando quest’ultimo come la parodia nera del primo. La seconda parte è dedicata al rifiuto di evadere dal carcere da parte di Socrate descritto da Platone nel Critone e nel Fedone. La radicale decisione del filosofo, argomentata introducendo il rapporto dialettico sonno-veglia, ci offre la possibilità di ricollegarsi idealmente ai primi due casi-studio, incentrati sul tema del dormiveglia vissuto in prigione.
Obbiettivo del presente lavoro è quello di riconoscere i tre casi-studio analizzati quali paradigmi di tre diversi modi di concepire l’evasione dal carcere in luoghi e tempi distanti fra loro, per tentare di mettere a fuoco, senza pretese di esaustività, l’immaginario antropologico dell’evasione espresso da testi sacri, letterari e filosofici e dal dialogo di questi con alcune loro raffigurazioni grafiche, pittoriche e scultoree che, al pari dei testi, suggeriscono il percorso interpretativo del tema affrontato.
Il dissimulato omaggio del titolo al fondamentale studio di Erwin Panofsky, La prospettiva come “forma simbolica” (I ed. 1927) mira a porre in modo estremamente sintetico la delicata questione del rapporto fra realtà e apparenza, declinandolo in modo metaforico all’interno della tematica qui discussa: l’evasione. Tale problematico rapporto, ben al di là da essere concepito come meramente ottico, verrà suggerito attraverso alcuni testi il cui punto di fuga, quello cioè in cui le linee parallele di realtà e di apparenza convergono per incontrarsi, si manifesta come coincidenza di uno stato di mistico dormiveglia con uno stato di estrema lucidità razionale. Sovrapposizione di stati psichici contraddittori che viene vissuta dai tre protagonisti dei racconti all’interno di una cella, nell’attesa della liberazione o della morte, o di entrambe contemporaneamente.
Evasioni in dormiveglia: fra visione celeste e istinto di sopravvivenzaL’episodio della Liberazione di Pietro è stato più volte raffigurato nell’arte, ma è stato forse Raffaello a cogliere più di ogni altro la condizione di dormiveglia in cui Pietro stesso vive la sua liberazione da parte dell’angelo. Molti pittori colgono dell’episodio lo stupore dell’apostolo nel vedere l’angelo del Signore apparirgli in carcere e liberarlo dalle catene. Raffello, invece, nel celeberrimo affresco delle Stanze Vaticane (Città del Vaticano, Stanza di Eliodoro, 1513-14) raffigura sulla stessa parete due volte Pietro, cogliendolo nei due ordini dell’esistenza, il sonno nella scena centrale e la veglia nella scena successiva sulla destra [Fig. 1]. A meglio guardare, Raffaello è ancor più psicologicamente raffinato nel cogliere i passaggi degli stati di coscienza di Pietro descritti nel testo degli Atti. Se, infatti, nell’episodio centrale dipinge Pietro mentre, “legato con due catene, dormiva fra due soldati e le sentinelle montavano la guardia davanti alla porta della prigione” (Atti 12, 6), nella scena successiva il pittore coglie lo stato di dormiveglia descritto nel testo, caratterizzando il volto dell’apostolo con un contrastato gioco luministico che non ha il solo valore estetico di drammatizzare l’atmosfera [Fig. 2]. Il volto dell’apostolo è infatti per metà ancora immerso nelle tenebre della cella (il sonno-prigione) e per metà illuminato dalla luce emanata dall’angelo (il risveglio-salvezza), il suo sguardo inoltre non guarda il suo accompagnatore celeste, né le guardie addormentate, ma si perde in un punto imprecisato fuori dalla scena [Fig. 3]. Si legge negli Atti (12, 9-11):
Pietro uscì e lo seguì, non sapendo se fosse realtà quello che veniva compiuto dall’Angelo; credeva di avere una visione. Dopo avere passato le prime e le seconde sentinelle, giunsero alla porta di ferro che conduce in città, che si aprì da sé davanti a loro. Usciti fuori, percorsero una strada e a un tratto l’Angelo si dileguò da lui. Pietro allora, rientrato in sé, disse: “Ora sono veramente certo che il Signore ha mandato il suo Angelo e mi ha liberato dalle mani di Erode e dall’aspettativa del popolo giudeo”.
Pare evidente dalla lettura del passo evangelico, magistralmente interpretato dall’intelligenza figurativa di Raffaello, che il passaggio dal sonno (che si verifica all’interno della cella, e che dal pittore viene significativamente raffigurato dietro le sbarre) allo stato di dormiveglia-visione (che comincia in Pietro appena fuoriuscito con l’angelo dalla cella e si conclude con il “ritorno in sé” e la presa di coscienza della realtà di quello che gli è appena accaduto solamente al di fuori della struttura carceraria), scandisca il ritmo di un’evasione che si fa simbolicamente progressiva presa di coscienza di una liberazione. In altri termini, l’angelo è sì colui che libera fisicamente Pietro dalle catene e lo fa evadere dal carcere, ma è anche colui che assume nella coscienza dell’apostolo il carattere di visione intermediaria fra il suo stato di sonno (che avviene simbolicamente in cella) e quello di piena consapevolezza di quello che è avvenuto (che si verifica nella coscienza di Pietro ormai quando il pericolo è verosimilmente cessato e l’angelo è già svanito). È fuori dalla cella (non essendo più addormentato ma non ancora del tutto sveglio) che Pietro, ancora all’interno del carcere, stringendo la mano all’angelo che lo sta accompagnando fuori, vive l’intercapedine del dormiveglia, “non soggiogato dalle leggi della coscienza di veglia, né dall’ignoranza del sonno” (Zolla 1996).
Una struttura parallela, scandita da un ritmo di dormiveglia che vira verso le tinte fosche dell’allucinazione, è da cogliersi nel racconto La tortura della speranza di Villiers de l’Isle-Adam incluso nella raccolta Nuovi racconti crudeli (I ed. 1888). In questo racconto il vano tentativo di fuga del rabbino Aser Abarbanel è immerso in un’atmosfera letargica in cui la coscienza del protagonista si muove a tentoni fra le mura del carcere in cui è imprigionato, intrecciando paura, angoscia e desiderio.
L’autore bretone rovescia sin da subito il racconto evangelico secondo la consuetudine parodica che prevede il ribaltamento e la confusione dei ruoli. Il primo nome che compare è infatti quello del venerabile Pedro (Arbuez d’Espila), sesto priore dei domenicani di Segovia e terzo Grande Inquisitore di Spagna. È a questa figura di subdolo carceriere che Villiers de l’Isle-Adam affida il compito di procurare la sadica illusione di fuga al rabbino imprigionato per usura. Lo stato psicologico di questi è colto sin da subito dal narratore che lo descrive con il solo ed efficace termine di “hagard” (stralunato) introducendo l’atmosfera onirica (da incubo) che da lì a poco dovrà vivere (1994: 68-69). L’autore insiste, infatti, nel contrapporre la crudele lucidità del carceriere, che prospetta al prigioniero la lenta morte per olocausto che avverrà l’indomani (salvo poi ammonirlo ironicamente di non perdere la speranza e di dormire quietamente), allo stato alterato di coscienza del rabbino, definito come prigioniero “frémissant” (fremebondo) e “interdit” (interdetto) accucciato nelle tenebre della sua cella (1994: 70-71). L’autore sembra voler sovrapporre per un attimo lo stato psicologico delle due figure che stiamo comparando. Entrambe (Pietro e Aser) sono infatti spaesate, inebetite, non comprendono esattamente cosa stia accadendo loro fra le mura del carcere in cui sono rinchiuse. Ma, ancora una volta, de l’Isle-Adam applica un bouleversement sottile che trasforma la legittima e positiva sorpresa suscitata in Pietro dall’apparizione sovrannaturale di un angelo nella fantasticheria inquieta e confusa che suscita in Aser l’accorgersi dell’insperabile quanto inimmaginabile porta socchiusa della sua cella, dopo la sgradita visita dell’Inquisitore. Questo fatto fa balenare nella sua mente una vaga ma potente illusione di fuga, che lo scrittore sottolinea definendola: “morbide idée d’espoir due à l’affaissement de son cerveau” (morbosa idea di speranza dovuta alla prostrazione del suo cervello) (1994: 72-73). Da qui l’inizio di una fuga dalla sua cella che si dipana lungo i corridoi del carcere, che sembra proprio irridere all’episodio della Liberazione di Pietro come narrato dagli Atti. Mentre l’apostolo è accompagnato per mano da un angelo passando accanto alle guardie addormentate, Aser è solo ed è costretto, come un animale braccato, a muoversi strisciando, guidato da un istinto che gli fa strada nell’azzurrognolo pallore dell’aria che a tratti permea i lunghi corridoi del carcere, rischiando più di una volta di essere scoperto dalle ronde di guardia, come ci mostrano anche le cupe illustrazioni di Paul Hardy che accompagnano il racconto nella sua traduzione inglese apparsa nel 1891 sulla celebre rivista The Strand [Fig. 4 - fig.5]. La fede in Dio che guida Pietro (anche se inizialmente in modo inconscio, affidandosi all’angelo senza riconoscerlo come messo divino) si muta in Aser in un’assurda ma inevitabile speranza, in quel “divin Peut-être qui réconfort dans les pires détresses” (divino Forse che riconforta nelle più terribili angosce) (1994: 74-75). Ed è solo grazie a questo “divino Forse” che il rabbino continua nel suo angosciato trascinarsi verso una presunta possibile libertà.
Anche se la matrice dichiarata del racconto è, come posto in esergo dello stesso, il Pozzo e il pendolo di Edgar Alan Poe (1994: 69), anche il finale crudele dell’episodio sembra il riflesso scuro e capovolto della Liberazione di Pietro. De l’Isle-Adam sovraccarica il momento in cui il rabbino è ormai sulla porta d’uscita del carcere di energie inebrianti che si colorano di un afflato mistico. I polmoni di Aser si riempiono di un vento che lo rianima, che, come un Lazzaro, lo resuscitano. L’evidente allusione alla liberazione dalla prigionia come una resurrezione dalla morte viene letta dal rabbino come un dono, come un’estasi concessa da un Dio misericordioso. È all’apice di questa climax emotiva che lo scrittore fa comparire, come un’ombra spaventevole, il Grande Inquisitore Pedro. Come ad attuare una sorta di contrappasso gotico in cui la forza parodica si carica di una valenza ermetica subliminalmente efficace, lo scrittore fa coincidere il momento di piena coscienza da parte di Aser di cosa gli sia realmente accaduto durante le prime fasi della sua potenziale fuga appena un passo fuori del carcere, esattamente come accade a Pietro. La radicale differenza fra i due episodi, però, è che l’apostolo si rende conto di cosa gli è accaduto in coincidenza con lo svanire dell’angelo, suo liberatore, mentre Aser viene a comprendere, anche se confusamente, che tutte le fasi della fatale serata non erano che l’ultimo supplizio previsto (la tortura della speranza), proprio quando ad apparigli di fronte, come un fantasma terribile, è il fosco prete, suo carceriere. Significativo è notare come l’episodio della soglia fra carcere e mondo, fra morte e vita, che caratterizza l’ultima fase di entrambi i racconti sia stato raffigurato pittoricamente in modo quasi sovrapponibile, se non fosse che nell’illustrazione di Paul Hardy (1891: 262) l’incombente figura di Pedro blocca con un infido abbraccio la via di fuga dell’ingenuo evasore, come un falso buon pastore che è felice di ritrovare la sua pecorella smarrita solo per immolarla [Fig. 6], mentre, nell’episodio evangelico raffigurato per esempio da Giacomo Jaquerio fra 1410 e 1415 (Torino, Palazzo Madama), la via della libertà è aperta dal delicato gesto deittico dell’angelo. [Fig. 7].
Prima di passare alla seconda parte dell’articolo è necessario ricordare che i Vangeli sono una fonte d’ispirazione esplicitata dallo stesso de l’Isle-Adam all’interno della raccolta Nuovi racconti crudeli, come dimostra l’episodio Il canto del gallo, in cui appare anche l’apostolo Pietro. Il parallelismo psicologico che, come abbiamo provato a esplicitare, lo scrittore ha voluto stabilire a distanza fra Aser e il Pietro degli Atti è confermato da come de l’Isle-Adam descrive Pietro nella vicenda del rinnegamento. L’apostolo appare (come Aser) smarrito, come uno che, muovendosi d’istinto, ha “les pensées confuses, déconcertées, le regard trouble” (la mente confusa, sconcertata, lo sguardo annebbiato) (1994: 158-159). Un altro, più sottile, parallelismo psicologico, che sottolinea come lo scrittore avesse nella sua mente associato i due personaggi, è quando, sempre nel racconto de Il canto del gallo, de l’Isle-Adam apostrofa l’istinto di rimanere libero di Pietro nel momento del rinnegamento, non a caso mentre sta guardando quella “terribile porta” chiusa del Sinedrio, dove sta per essere condannato a morte Gesù, con l’espressione “ô candeur de l’homme!” (2007: 160), riferendosi alla sua “umana ingenuità” (2007: 161). La medesima che si può riconoscere nella mal riposta speranza di Aser nei confronti della porta, rimasta aperta, della sua cella.
Per un nuovo punto di fuga: la dialettica sonno-risveglioNel Critone di Platone la prima descrizione che si ha di Socrate è quella in cui il filosofo viene osservato da Critone stesso mentre beatamente giace addormentato nella propria cella nell’attesa che venga eseguita, tramite l’assunzione di veleno, la pena capitale che gli è stata inferta dagli Ateniesi per l’accusa di empietà. Interrogato poi da Critone, il filosofo descrive il sogno che fortunatamente il suo amico non ha interrotto venendolo a trovare all’alba (43 a-b). A Socrate appare una figura che ha le caratteristiche di una donna angelica, che preannuncia la sua liberazione non sotto forma di evasione ma sotto quella della morte. Dice Socrate, descrivendo il suo sogno: “Mi pareva una figura, una bella donna, elegante che avanza, vestita di bianco luminoso. M’ha chiamato: ‘Socrate, tempo tre giorni, verrai alle floride terre di Ftia’” (44 a-b). Quella che vede in sogno Socrate è probabilmente l’allegoria della Filosofia che richiama l’anima del filosofo nell’Al di là. Quello che a noi interessa in questo contesto non è però individuare l’identità di chi appare nei sogni di Socrate ma sottolineare come questi sogni siano ricorrenti nel filosofo incarcerato e di come questi reagisca ponendosi da una parte in una ricezione obbediente dei messaggi-visioni recepiti nel sonno (Fedone 60 e) e dall’altro rivendichi invece un lucidità della veglia che gli consente di prendere decisioni ferme, irrevocabili e pienamente consapevoli (Fedone 63 e).
Continuiamo ora ad intrecciare alcuni passi del Critone e del Fedone per seguire questa pista di lettura.
Critone tenta di persuadere Socrate ad evadere unendo alle ragioni pratiche, che fanno appello alla fattibilità della fuga (l’avere raccolto una quantità di soldi sufficiente per corrompere i carcerieri e l’avere molte persone disponibili ad ospitarlo lontano da Atene in Tessaglia), argomenti che fanno invece leva sui sentimenti comuni di amicizia e paternità (restare in carcere e attendere la morte vorrebbe dire innanzitutto abbandonare i suoi discepoli e amici e far divenire orfani i suoi figli, lasciandoli alla deriva). Socrate, che aveva appena finito di raccontare il suo sogno premonitore, replica al discepolo con un tono molto lontano dal vaticinio, impostando la sua risposta sulla sola luce della ragione:
dei miei ragionamenti io seguo solo quello che al lume del mio ragionare è eccellente […]. E se qui a quattr’occhi non riusciamo ad argomentare di migliori, t’avviso, non verrò dalla tua parte, neanche se questa massa prepotente vorrà stregarci con spettri puerili, appesantendo la mia pena: con manette, esecuzioni, espropri (Critone 46 b-c).
Prima di entrare nel merito dei ragionamenti del filosofo alla luce della nostra prospettiva ermeneutica, che vuole considerare l’evasione sub specie simbolica ricollegandosi alla dialettica sonno-risveglio esposta da Socrate nel Fedone, è utile soffermarsi brevemente su un termine che offre la possibilità di approfondire le diverse sfaccettature di quello che si vuole intendere per “fuga” nel contesto platonico affrontato. Il termine greco è ἁφιέντων. Questo deriva dal verbo ἁφίημι e significa getto, lancio, mando fuori, congedo, lascio andare, mando via, assolvo, permetto. Socrate utilizza tale vocabolo quando si domanda se sia lecito evadere dal carcere “senza l’assoluzione [il permesso, l’autorizzazione] degli Ateniesi” (Critone 48 c). La liceità di lasciare la prigione, ovvero ciò che permette l’uscita dal carcere senza che questa diventi un’azione fuori legge, è condizionata per Socrate dall’assoluzione nei suoi confronti da parte degli Ateniesi. Il discorso del filosofo imprigionato non sembra però solo soffermarsi su una questione etica del rispetto delle leggi. Socrate pare voler andare oltre. Quello che cerca è una fuga, definitiva, esemplare, irrimediabilmente liberatoria. Socrate non vuole evadere dalla realtà per ritrovarvisi ancora implicato. Non si accontenta di una fuga da Atene alla Tessaglia, né tanto meno si accontenterebbe di una piena assoluzione da parte dei suoi concittadini. Il senso civico che lo tiene legato al carcere, che gli impone il rifiuto di evadere, è lo stesso che lo legherebbe ovunque si rifugi. Assolvere (ab-solvere: slegare) che è il verbo latino (e italiano) con cui si può tradurre ἁφίημι, è un verbo a doppio senso di marcia. Da una parte concede e dall’altra esige. L’assoluzione dell’imputato, dopo un processo in tribunale, lo libera dall’accusa di avere infranto una legge ma non lo libera dal potersi sottrarre a quella stessa legge e continua ad esigere che venga rispettata, che la persona assolta assolva cioè i suoi doveri di cittadino. Socrate trova irragionevole una vita da latitante in esilio così come trova oramai impensabile il rientrare da cittadino nelle leggi per continuare ad assolvere ad esse. Entrambe le soluzioni lo costringerebbero infatti a rinunciare al suo atto pedagogico più estremo e radicale, oramai ineliminabile sia da espedienti legali (l’assoluzione) sia da quelli illegali (l’evasione). Socrate è convinto che i suoi ragionamenti siano corretti dal punto di vista logico, giusti dal punto di vista etico e che siano pii, perché ispirati da un dio. Già nell’Apologia Socrate dichiara esplicitamente: “Se dunque voi - e lo ripeto – mi mandaste assolto [ἁφίοιτε] a queste condizioni, io vi risponderei: Signori ateniesi, io vi venero e vi sento profondamente miei, ma io obbedirò al mio dio, più che a voi” (29 d).
È continuando a intrecciare argomentazioni di tipo etico e mistico che Socrate prosegue i suoi insegnamenti introducendo nell’ultimo dialogo platonico di cui è protagonista, il Fedone, la sue riflessioni sul rapporto sonno-veglia associandole a quelle morte-vita, virando i suoi ragionamenti su un piano sempre più d’ispirazione metafisica che culminerà nella teoria/dottrina dell’immortalità dell’anima.
Con l’usuale procedimento maieutico Socrate fa porre ai suoi interlocutori l’equivalenza: morte sta a vita come sonno sta a veglia. Affermando che entrambe queste coppie di contrari si generano l’uno dall’altro, prosegue asserendo che se ad ogni addormentarsi non corrispondesse anche uno svegliarsi, tutto il mondo giacerebbe sempre e solo addormentato. È grazie al sonno, continua il filosofo, che può esistere un risveglio che da questi deriva. Ugualmente se tutto ciò che vive morisse eternamente senza più tornare in vita allora tutto rimarrebbe morto per sempre. Socrate parla esplicitamente dei “vivi che dai morti rinascono” (Fedone 72 d).
Volendo proseguire il ragionamento del filosofo si potrebbe proporre a questo punto un’ulteriore equivalenza avanzando, dato anche il contesto in cui avviene il dialogo, la coppia di opposti libertà-prigionia. La doppia equivalenza che si verrebbe così a comporre sarebbe: morte e sonno stanno rispettivamente a vita e veglia così come prigionia sta a libertà. Socrate ha quindi bisogno di morire, di addormentarsi e sognare, di farsi ispirare da un dio e di essere prigioniero degli uomini per divenire vivo, sveglio e libero. È attraverso questo percorso lucido, filosofico, ma non privo di visioni oniriche, che il filosofo organizza la sua evasione. Questa non è, come abbiamo provato a suggerire con la breve digressione sul verbo ἁφίημι / assolvere, una fuga che slega da una parte per legare dall’altra, ma è un fuggire radicale dentro e attraverso la sua responsabilità di pedagogo geniale (δαιμόνιε) e amico del pensiero. Non è quello di Socrate un evadere da se stessi, ma è, al contrario, un rimanere pienamente di fronte a se stessi. Significativa in tal senso è la rara raffigurazione di Socrate che indica di guardarsi allo specchio come metafora del guardare se stessi nel senso del precetto delfico “conosci te stesso” (γνῶθι σαυτόν) che il pittore messinese Domenico Marolì rappresenta nella seconda metà del XVII secolo (Lodi, collezione privata) [Fig. 8] (Cfr.: Hyerace 2009: 5-10), ispirandosi con tutta probabilità alle Vite dei filosofi di Diogene Laerzio (II, 33) e al Pro se de magia liber di Apuleio (15, 4-7).
Quest’ultimo riferimento all’iconografia socratica dello specchio, unito alle parole che il filosofo stesso riferisce a riguardo discutendo con Alcibiade: “Se, dunque, l’occhio vuole vedere se stesso, deve guardare nell’occhio e in quella parte in cui nasce la forza visiva, che è la vista” (Alcibiade maggiore 133 b), ci offre la possibilità di cogliere una radicale intimità tra il vedere e il conoscere, o meglio ancora, permette di domandarsi quale sia la modalità che fa del vedere una forma di conoscenza. La prospettiva, di cui si è detto all’inizio, andrebbe in tal senso riconosciuta come un modo di organizzare lo sguardo affinché questo ricomponga la realtà, conoscendola. Allo stesso modo, proseguendo nella metafora, i protagonisti dei nostri racconti, Pietro, Aser e Socrate, messi di fronte ad una stessa situazione estrema, hanno modulato il loro sguardo e la loro mente secondo tre diverse prospettive (e stati di coscienza) facendo dell’evasione una forma simbolica, ponendosi innanzi ad essa come davanti ad uno specchio in grado di rilevare e riflettere la natura profonda di chi (prigioniero) si ritrova di fronte alla propria (possibile) libertà. Il punto di fuga prospettico rappresenterebbe così, in quest’ottica metaforica, non il punto da cui si fugge, da cui è possibile allontanarsi, ma il luogo preciso a cui lo sguardo deve sempre ricondursi, la soglia impropria in cui ogni passaggio di stato (sonno-veglia, morte-vita, prigionia-libertà) si manifesta come annidamento reciproco e potenzialmente all’infinito delle due polarità. Evadere, andare fuori (e-vadere), assumerebbe in tal senso un significato simbolico che non implicherebbe la fuori uscita da sé (ek-stasis) ma il continuo attraversarsi per conoscersi.
Vorrei, infine, riprendere l’iconografia della soglia che separa e unisce prigione e libertà in relazione all’episodio di Socrate in carcere. Nel rilievo in gesso di Antonio Canova, intitolato Socrate congeda la famiglia (Venezia, Museo Correr) [Fig. 9] (Cfr.: Pavanello 1992: 192-203), la porta della cella assume, per esempio, un ruolo chiave essendo collocata al centro della composizione. A destra, sotto la grata della cella, un gruppo di cinque seguaci del filosofo si mostra ormai rassegnato alla decisione presa dal maestro, a sinistra i familiari si allontanano da Socrate piangendo disperati o rivolgendo al padre un ultimo sguardo. Il filosofo non oltrepassa la soglia (e sappiamo che non lo farà). Non è accompagnato fuori come Pietro, né bloccato come Aser, ma è significativamente colto in un passo d’arresto volontario, che lo fa sembrare come in equilibrio su un piede solo, immobile, fra gli stipiti di una porta in prospettiva. Mentre l’amico Critone prova ancora a persuaderlo a evadere, sussurrandogli nell’orecchio di seguire la sua famiglia, Socrate con gesto rassicurante e deciso congeda i familiari, divenendo a se stesso il solo punto di fuga. È a questo punto (e in questo punto) che l’evasione socratica rivela la sua dialettica interna in cui il soggetto in fuga rivendica il proprio sé, divenendo assieme essere assoggettato (addormentato e prigioniero) ed essere sovrano (sveglio e libero), perdendosi e possedendosi indefinitamente (Cfr.: Agamben 1998: 101-104; Alfieri 2011: 10).
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